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Suicidi in carcere: "caro ministro, non sono né imprevedibili, né misteriosi"

di Guido Tallone


Susan John, nigeriana di 45 anni e Azzurra Campari, ligure di 28 anni, si sono suicidate a poca distanza l’una dall’altra nel carcere di Torino in questo caldo agosto 2023. Fin qui la cronaca, oramai tristemente nota. Ma si sfogliamo a ritroso il calendario, si scopre che nel 2022 sono stati 85 i suicidi nelle carceri italiane. Per quanto riguarda l’anno in corso si contano già 44 detenuti che si sono tolti la vita dietro le sbarre. Cifre impressionanti che denunciano - da sole e senza bisogno di grandi commenti - come il sistema penitenziario in sé (in ogni parte del mondo) sia di fatto incapace di rieducare chi ha commesso illegalità. Chi però non ha capito queste dinamiche, e ha commentato la vicenda delle due donne che si sono tolte la vita nel carcere torinese in modo “pesante”, scorretto e con parole inappropriate e non vere, è stato però il Ministro della Giustizia Carlo Nordio.

Per Nordio i suicidi in carcere fanno parte della triste “normalità” legata alla condizione carceraria (“purtroppo il suicidio in carcere è un fardello di dolore che affligge tutti i paesi del mondo e molto spesso è imprevedibile.”). Non solo: per lui il fatto che detenuti decidano di arrendersi ad una vita senza libertà, ma anche senza dignità e scelgano il gesto estremo è “una realtà tanto misteriosa quanto insondabile”. Cito le sue parole: “Da pubblico ministero per oltre quarant’anni ho trattato centinaia di suicidi e non esiste mistero più insondabile della mente umana di quando si sceglie una via così estrema.”.

No, proprio no signor Ministro: il suicidio in carcere non è imprevedibile e non è un mistero. Anche perché - sua questa descrizione - "il carcere di Torino è sovraffollato come praticamente tutti i penitenziari italiani". Per poi aggiungere: "il nostro orientamento istituzionale è quello della rieducazione, ma questo non si può fare senza spazi e senza personale”(!). Come a dire: se chi è privato della libertà deve scontare questa pena in contesti vecchi, fatiscenti, sovraffollati e incapaci di garantire una vita rispettosa della dignità umana (persino l’igiene personale è resa poco praticabile), significa che siamo in presenza di una pena che spegne lentamente la voglia di vivere a chi entra in questo girone infernale.

Per Susan, detenuta nigeriana, è andata proprio così. È stata condannata a dieci anni in un Paese che non conosce (e di cui non capisce una parola); si è sentita definitivamente orfana di suo figlio di 4 anni e questo ha fatto crescere il suo vissuto di abbandono e di disperazione che ha reso possibile quel doloroso e drammatico lasciarsi morire che ha caratterizzato il suo suicidio. Lo stesso dicasi per Azzurra: resa fragile da percorsi segnati, nell’infanzia e nell’adolescenza, da abbandoni e da mancanze educative, è entrata nel mondo delle dipendenze e ha commesso i classici reati connessi a questa condizione. La sua fragilità, però, è rimasta. E nel carcere è esplosa come una ulteriore e definitiva condanna. Ha provato a chiedere aiuto e ha gridato alla mamma, in una video-chiamata, la sua disperazione: "Mamma non ce la faccio più". La mamma ha fatto di tutto per cercarla, per parlarle, per prenotare una visita e per dirle che la sua famiglia non l’avrebbe abbandonata, ma il muro del carcere è invalicabile anche per gli affetti materni. E Azzurra ha scelto di fermare la sua vita perché caricata di pesi e di solitudine insopportabili.

Ed eccoci al punto della riflessione: il suicidio in carcere non è un mistero e non è imprevedibile. È la necessaria conseguenza cui pensano quanti oltre a vedersi togliere la libertà si vedono sospesa la propria dignità umana. E tra quanti pensano il suicidio in carcere, alcuni (troppi!) lo realizzano perché restano schiacciati da una disperazione insopportabile, da quella solitudine che toglie la voglia di vivere, dalla rabbia per il fatto di subire violenza dal garante della legalità e perché gli affetti della propria vita sono irraggiungibili. Sono queste le condizioni che rendono incapace il detenuto di intravedere un futuro oltre le sbarre.

Impedire che questi elementi si incontrino nella biografia di chi ha commesso dei reati è la precisa responsabilità di chi deve amministrare la giustizia (non la vendetta). Significa creare le condizioni perché da qualsiasi fragilità, errore, reato e illegalità ci si possa riprendere insieme: con l’aiuto di una comunità che ha scelto di bandire la violenza dal suo sistema rieducativo. Vuole dire anche che la soluzione al sovraffollamento carcerario non è data dalla costruzione di nuove carceri (ipotesi ritenuta irrealizzabile dallo stesso ministro), ma nemmeno dal "riadattare le caserme dismesse per permettere a detenuti spazi aperti che potrebbero essere utilizzati per il lavoro e l’attività sportiva", come è stato proposto dallo stesso Ministro.

Se esistono le risorse economiche per realizzare investimenti strutturali di questo tipo e per assumere operatori (!) in grado di costruire opportunità lavorative e pratiche sportive per detenuti considerati di "modestissima pericolosità sociale", perché non usare queste risorse per inventare forme alternative alla detenzione?

Il carcere deve essere e deve restare l’ultima ratio, come proponeva il cardinale Carlo Maria Martini. I nostri detenuti sfiancati da condizioni disumane non vanno difesi con forme di controllo asfissianti o con spioncini sempre aperti sulla loro condizione detentiva. Hanno già conosciuto troppa violenza per vedersi correggere - da parte dello Stato - con l’uso di altra violenza. Più in profondità cercano comunità e condizioni di vita capaci di rigenerare quella speranza e quella voglia di legalità che nessun carcere riesce a infondere.

Detto perciò in italiano: non c’è nulla di imprevedibile e di misterioso nel grido disperato di chi chiede aiuto, dal carcere, rinunciando a vivere. È tutto altamente prevedibile e trasparente, finché il sistema penitenziario è gestito in questo modo.

Per concludere: il gesto estremo di Susan e di Azzurra compiuto nel carcere di Torino non ha nulla a che vedere con il suicidio del gerarca nazista che, per sfuggire all’impiccagione decretata nel processo di Norimberga, si è tolto la vita con una pastiglia di cianuro. Cogliere continuità inesistenti tra un condannato a morte per crimini di guerra e due detenute chiamate a ritrovare la via della legalità dopo un percorso detentivo, non è il segno evidente che nell’immaginario collettivo il carcere è - di fatto - "associato" una condanna a morte? E non sarebbe il caso di spezzare queste odiose, disumane e incostituzionali "associazioni"?

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