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Date cancellate e dimenticate. L'ingresso dell'Italia in guerra


Il suo nome non si trova nei libri di storia, né nei racconti dedicati alla Grande Guerra vista dalla parte degli italiani. Ma Riccardo Giusto, alpino, classe 1895, fu il primo caduto dall'ingresso dell'Italia - 24 maggio 1915 - nel conflitto che insanguinava l'Europa dal 28 luglio del 1914. Ieri, la data del 24 maggio è passata inosservata e nell'indifferenza o quasi, ignorata o sepolta, crediamo, proprio a causa dei gravi avvenimenti bellici che scuotono le nostre vite o, per dirla in termini prosaici, per l'inanellarsi di una arrembante cronologia di fatti che fa perdere la visione d'insieme anche della storia.

In effetti, dal 24 febbraio del 2022, invasione dell'Ucraina e radicalizzazione dello scontro con la Russia, prima circoscritto al Donbass, e dal 7 ottobre 2023, massacro compiuto da Hamas contro cittadini israeliani e conseguente reazione dello Stato di Israele guidato dal criminale Netanyahu che continua a polverizzare corpi e case della Striscia di Gaza, non si è più gli stessi e si guarda attoniti ai morti rimandati dalle immagini televisive che di giorno in giorno sono soltanto numeri, cifre ragionieristiche, vittime spogliate dalle loro individualità, dopo essere state sottratte illegittimamente al futuro. Ultime, la prole di Alaa al-Najjar, medico all'ospedale "Nasser" di Khan Jounis, nel sud della striscia di Gaza: nove figli che un missile alla ricerca di terroristi ha dissolto nell'aria ieri l'altro.

Dal 24 maggio del 1915 per le famiglie italiane non fu così. I morti non erano numeri. Anzi, fu il contrario. Da quella data, dopo Riccardo Giusto, cui l'Associazione nazionale alpini della sezione di Cividale del Friuli ha dedicato un monumento nelle vicinanze del rifugio Solarie, una piccola piramide tronca che ha in cima la statua in ferro di un'aquila in volo, seguirono altri 650 mila morti. Altre 650 mila volte di carabinieri alle porte di case e cascine con una lettera del ministero della Guerra che dava notizia sulla perdita del congiunto, mentre più di un milione furono i feriti, di cui 500mila mutilati, e migliaia con gravi ripercussioni sul piano psichico, ciò che oggi si declina come disturbo post-traumatico da stress (PTSD).


Nelle fornace della Grande Guerra, attraverso una impressionante mobilitazione nazionale che toccò oltre cinque milioni di uomini e decine di migliaia di donne arruolate nei servizi sanitari e della Croce Rossa, le vite di giovani e meno giovani si bruciarono anche per la miopia, a tutte le latitudini, di cinici comandanti vecchi più nella mentalità che all'anagrafe, incapaci di comprendere gli effetti dirompenti dello sviluppo tecnologico delle armi, che vivevano il comando come dominio assoluto sui soldati, considerati "carne da macello", espressione di classi subalterne da sacrificare senza rimorso alcuno.

Il capitalismo in lotta su scala planetaria, da cui derivarono inimmaginabili ricchezze per pochi e indicibili sofferenze per molti, dalle trincee allo sfruttamento nelle fabbriche per la produzione bellica, fece il resto. Ai reduci rimase una greve retorica della "vittoria mutilata" e una propaganda tossica usate come leva di disordine sociale, da cui nacquero e trovarono linfa nelle diverse forme i totalitarismi europei nel giro di pochissimi anni, dal fascismo al nazismo, dal salazarismo in Portogallo al franchismo in Spagna e alle molteplici dittature militari sviluppatesi in Polonia, Ungheria, Grecia, ecc.

Tutto ciò non ci deve indurre però a dimenticare quei giorni e le ragioni di quei morti e di quelle sofferenze, insieme con le convinzioni di chi indossò la divisa e andò al fronte per completare l'Unità del Paese con Trento e Trieste, ridando voce agli irredenti che erano saliti sulla forca in nome dell'Italia. La storia non si può cancellare, peggio sarebbe ridurla a spaccati di economicismo estremo, a mistificarla come pura e unica esigenza di mercato globale, anziché affrontarla nei suoi aspetti più deteriori e negativi, come lo sono le guerre. Ieri come oggi.




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