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Piazza Kapija,Tuzla: la strage dei giovani del 25 maggio 1995


di Marco Travaglini


Trent'anni fa. “Da lì si sentiva la musica che suonava nella piazza. Veniva a ondate. Onde di rock bosniaco. Risacca di amplificatori da due soldi... E la festa di piazza Kapija arrivava a ondate... Poi sono caduto. Ho perso l'equilibrio perché mi si sono tappate le orecchie all'improvviso. Mentre cadevo, il pavé della strada ondeggiava sotto i miei occhi. E dalla piazza, assieme alla gente rotolava giù un muro di suono. Migliaia di gole che si squarciavano, un'onda di pietra che mi si schiacciava contro il cuore. E mi incurvavo per sostenere il peso di quelle grida e continuare a camminare; calpestavo schegge di intonaco e plastica e inciampavo in stracci di camicie e di bandiere... C'era odore di plastica bruciata, di polvere, e un sentore acido di elettricità, come se lì intorno fosse caduto un fulmine..”. Sono stato molte volte in piazza  Kapija, nel cuore di Tuzla, Bosnia nordoccidentale.

E’ esattamente come la descrive Maggiani nel suo Il viaggiatore notturno. E’ un “selciato spianato tra spigoli legnosi di vecchie case ottomane e composti palazzi austroungarici”. Ci sono stato insieme a tanta gente, alcune volte accompagnando i ragazzi delle scuole piemontesi per deporre una corona di fiori e colleghi giornalisti. Un omaggio semplice, un gesto per non dimenticare o archiviare in qualche angolo sperduto della memoria ciò che lì è accaduto il 25 maggio del 1995. Una delle più crudeli vicende di quella guerra “che armi non ha” e di quella pace “che ammazza qua e là”, sanguinosa traccia che ha segnato la terra bosniaca e i Balcani. Ci sono tornato da solo, più volte. A cercare nel silenzio e ascoltare. E' incredibile come possa essere silenzioso in un pomeriggio di primavera il centro storico di Tuzla. Seduto su una panchina, ho chiuso gli occhi per pensare, per sentire quel silenzio.

“Alla soglia della piazza c'era la farmacia turca con la porta divelta e l'insegna riversa sulla strada, c'erano transenne abbattute e un grande tiglio schiantato alle radici”. Il 25 maggio, giorno della Festa della Gioventù, era un giovedì, nel terzo anno di guerra in quelle terre, e da tre anni la città resisteva con ogni mezzo all'odio ammantato da guerra di religione che dilaniava il paese, continuando testardamente a praticare il suo carattere multietnico e non nazionalista. Faceva caldo e più che primavera pareva quasi estate. La scuola era finita e, come sempre si è fatto in tutta la ex Jugoslavia i ragazzi facevano festa. Da una settimana non si sparava. La situazione pareva più tranquilla. Per quanto poteva dirsi tranquilla una zona da poco dichiarata dalle Nazioni Unite “area protetta" come Sarajevo, Bihac, Zepa, Srebrenica e Gorazde.

Che si stesse per uscire dal tunnel del conflitto lo speravano in molti. Che fosse davvero così, lo credevano in pochi. La Nato, finalmente, aveva deciso di fare qualcosa, bombardando timidamente poche ore prima un deposito di munizioni serbo-bosniaco a Pale, la capitale dove stava Radovan Karadžić, il capo degli assedianti di Sarajevo. Stava per scendere la sera, con uno di quei miti tramonti che incendiano il cielo slavo del sud quando accadde ciò che nessuno osava immaginare. Nulla di meglio che le parole di Maurizio Maggiani, prese in prestito dal suo bellissimo libro, possono descrivere i fatti e l'emozione che si prova sostando in silenzio davanti alla lapide che ricorda le  71 vittime di piazza  Kapija.

Tutto si svolse in un attimo. “Dal monte Ozren si è messa in viaggio una granata che dopo un paio di minuti è arrivata in piazza Kapija. In quel momento nella piazza c'erano più di mille persone, ragazzi per lo più, che stavano ascoltando il primo complesso musicale in programma. La granata era di tipo k400, caricata con quindici chilogrammi di esplosivo ad alto potenziale. Un'arma rara e preziosa, contingentata molto severamente; un oggetto di culto in un esercito che ha potuto procurarsene solo poche decine. Per questo è stata sparata molto appropriatamente da un cannone a lunga gittata guidato da un sistema telemetrico di estrema precisione. Infallibile...

Esplodendo a contatto con il duro selciato della piazza, la granata ha aperto un cratere profondo più di cinque metri e largo almeno venti. In quel cratere e attorno a quel cratere sono morte settanta persone e rimaste ferite più di duecento. In gran parte ragazzi che stavano festeggiando, naturalmente. Il più giovane aveva tre anni. Si chiamava Korzo ed era lì con la sorella maggiore; la teneva per mano. Il più vecchio si chiamava Aziz e aveva sessant'anni suonati; era l'operaio del municipio addetto al generatore di corrente che faceva andare i microfoni e le chitarre del palco. Il monte Ozren ancora oggi è lì, a quindicimila metri di distanza da piazza Kapija; non si vede dalla città, né la città si vede da lì; questo non è un problema per l'artiglieria moderna”.

Ho pensato più volte a queste parole e alle emozioni, forti come un pugno nello stomaco, che mi hanno provocato. L’età media di chi morì in piazza era di 25 anni. Forse può aiutarci ancora Maggiani a trovare le parole giuste per raccontare, per sentire, per imprimere nella memoria. “Non c’era posto dove mettere i piedi. Dove mettere gli occhi. Non c’era dove stare. La piazza era piena di morte. Era piena di vita urlante che stava per morire. Piena fino all’inverosimile di quello che era rimasto della gioventù di Tuzla. I soldati cercavano i vivi camminando su quelli che credevano morti. Scartavano gambe e mani e si facevano strada verso i visi. Sapevano cosa fare, per loro lì c’era posto. Non so cosa ho visto e non so cosa ho sentito, ma so dell’odore di bruciato e di zolfo. Anche se so bene che nella piazza non c’era nessun fuoco”.

Quella piazza, nel centro della città vecchia, era ed è da sempre il ritrovo preferito dei giovani di Tuzla. Tutti sapevano che per gli studenti bosniaci la festa alla fine del secondo ciclo di studi è sempre stata molto importante. Quasi il gesto naturale di varcare la soglia della porta che consente l'entrata in società. Un evento che richiede i sorrisi più belli, il vestito migliore, lo sguardo del futuro. Anche quel giorno, nonostante la guerra e le ristrettezze economiche si cercava di organizzare qualcosa di memorabile, che aiutasse a scacciare angosce e paure. Così, a poco a poco, Piazza Kapija iniziò a riempirsi di ragazzi fra i 18 e i 25 anni.

Sul piccolo aeroporto di Tuzla era appena cessato un bombardamento, ma era lontano dal centro e nessuno ci fece caso. Ci si abitua presto a sentire, in lontananza, il rumore sordo dei colpi. Ma era stata l’azione militare della Nato a far saltare i nervi ai macellai di Pale ed è in quel momento che le batterie dell'artiglieria serba, attestate sul Monte Majevica, con un cinico calcolo e per rappresaglia, fecero partire la granata che colpì in pieno il centro della piazza. I feriti furono 236, alcuni dei quali gravissimi. Erano bosniaci, serbi, croati. A riprova che non c'è mai stato un vero e proprio conflitto etnico. Erano tutti slavi. Quelli che sparavano e quelli che morivano. I guerrieri di Karadžić e di Mladic che martellavano il centro della città prendendo la mira, calcolando il tragitto della bomba, e quelli che erano semplicemente dei ragazzi che volevano far festa.


Lì, al numero uno di via della Gioventù Interrotta, gli abitanti di Tuzla hanno eretto un monumento, a ricordo e avvertimento. A distanza di anni è rimasta, forse, l'unica traccia visibile della guerra a Tuzla. Sulla lapide è incisa una frase che suona a condanna senza appello: “Fascisti serbi aggressori”. L’accompagnano i versi di Mak Dizdar, poeta bosniaco: “Qui non si vive solo per vivere. Qui non si vive solo per morire. Qui si muore per vivere”. La città, in fondo, era stata risparmiata da danni e distruzioni importanti. Non vennero risparmiate però le persone e i loro destini. Alle spalle del laghetto d’acqua salata si erge la collina del cimitero. Qualcuno la chiama la collina “degli eroi”. Un giorno sono salito nel bosco, in mezzo alle lapidi, tra croci e basluk, le steli tombali secondo le usanze musulmane. In silenzio, quasi in punta di piedi, per non disturbare. Una vecchina curva avanzava lentamente con in mano un mazzo di fiori. Chissà quanti morti aspettavano ancora di essere seppelliti qui.

Chi poteva dire a quel tempo quante fosse comuni dovevano essere ancora scoperte sulle montagne attorno a Tuzla. Era lecito chiedersi dove fosse finito il culto per le salme. Dov’era il rispetto e la venerazione dovuta alle persone che avevano perso la vita. Una domanda legittima lì, immaginarsi a Srebrenica. Sentii quel giorno l’odore della terra smossa e dei fiori appassiti. Mi venne voglia di pregare anche se non credo a nessuna religione. Non mi restò che il silenzio. Poi scesi, lentamente, dalla collina. Mi era parso di non avere il diritto di rimanere a lungo lì, dove il dolore e il ricordo erano un grumo solido, duro come sasso. Mi sentii come se dovessi anch'io espiare a quel peccato originale che segnerà per sempre la cattiva coscienza dell'Europa davanti a quelle lapidi.


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