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Insieme, ma soli: contrastiamo la solitudine nell’era della connessione

di Chiara Laura Riccardo ed Emanuele Davide Ruffino


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I giapponesi hanno già coniato un termine specifico hikikomori, dal verbo hiku (tirare indietro) e komoru (ritirarsi), per indicare una particolare condizione che comporta una forma estrema di ritiro sociale che si manifesta soprattutto tra gli adolescenti e i giovani. Lo stare in disparte, l’isolarsi, ormai sono entrati nell’ambito delle malattie che colpiscono la nostra società. L’isolamento sociale è un problema che non presenta confini geografici e/o generazionali, e diventa sempre più preoccupante fra gli adolescenti e gli anziani (le persone in età lavorativa sono, volenti o nolenti, obbligate a intrattenere maggiori relazioni). 

 

Meglio soli... falso

Il problema ha già trovato spazio su questo sito[1], ma a certificare le dimensioni del fenomeno è l’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) che considera la solitudine una minaccia alla salute globale degli individui e delle comunità. La solitudine rappresenta un problema individuale, ma a forte valenza sociale. Per gravità si può considerare il fenomeno pari all’obesità e dell’inattività fisica.

Sembra quasi esserci una contraddizione: nonostante le maggiori possibilità di contatto offerte dalle tecnologie informatiche, decrescono progressivamente le connessioni sociali.

Lo psichiatra Eugenio Borgna (1930-2024), mancato recentemente, in uno dei suoi lavori sul tema della comunicazione parla di un “incatenamento digitale” che genera deserti e di una comunicazione che non crea né ascolto, né condivisione, tanto meno possibilità di confronto.

I mezzi digitali — smartphone, social network, messaggistica istantanea — ci fanno sentire costantemente connessi, ma al tempo stesso più distanti gli uni dagli altri. La connessione tecnologica, infatti, non coincide con una relazione autentica. Manca spesso la dimensione dell’ascolto profondo, della presenza empatica, del silenzio condiviso che può rendere un dialogo realmente trasformativo.

Se guardiamo all’isolamento sociale, vediamo come tecnicamente questo, rispetto alla solitudine, ancorché fortemente interdipendenti, sia un fenomeno differente: la solitudine è la conseguenza di un’esperienza soggettiva di isolamento spesso derivante da un divario incolmabile tra le aspettative e la realtà in termini di quali-quantitativi attesi, mentre con il termine isolamento sociale si definisce una condizione di oggettiva assenza o scarsità di connessioni sociali. Entrambe le fattispecie contribuiscono, anche nelle forme meno gravi, ad accrescere il rischio per la salute mentale (disturbi d’ansia, depressione e demenza, ma anche infarto e ictus).


Le analisi di Abraham Harold Maslow

Gli antidoti sono spesso individuati in un aumento dei supporti sociali e nella presenza di condizioni favorevoli per lo sviluppo dei fattori coinvolgenti e protettivi di corrette relazioni: la semplicità dei rimedi contrasta però con le difficoltà attuative e spesso vengono sostituite con l’abuso di alcol o altre forme di dipendenza. L’importanza delle relazioni sociali fu già evidenziata da Abraham Harold Maslow, psicologo e sociologo statunitense, che deve la sua notorietà soprattutto per aver studiato e individuato una graduatoria dei bisogni umani e per la teoria sulla gerarchia di motivazioni che condizionano un essere sociale: Maslow pone i bisogni di affiliazione e di appartenenza subito dopo ai bisogni fisiologici indispensabili per la sopravvivenza immediata (alimentarsi e proteggersi dagli eventi atmosferici). L’appartenenza ad un gruppo non è una scelta, ma una necessità e la sua carenza o mancanza genera problemi di salute che la nostra società non può trascurare, dagli eventi più drammatici, come le disposizioni messe in essere dalla Svezia per individuare tempestivamente i cadaveri di anziani deceduti nelle loro abitazioni, agli interventi effimeri posti in essere per accedere a qualche contributo statale.

 

Il paradosso dei giovani connessi

Questa epidemia silenziosa sta colpendo anche e soprattutto i giovani, che all’interno della loro quotidianità si trovano immersi all’interno di una “rete” socio-relazionale quasi sempre mediata dalla tecnologia, dove le relazioni umane autentiche e profonde, si sono molto allentate. Questo in perfetta linea con quanto il sociologo Zygmunt Bauman, sostiene in riferimento alla “società liquida” in cui viviamo, dove “i legami umani vengono sempre più spesso vissuti come fardelli e rischi da evitare, piuttosto che come risorse da coltivare”. In questa cornice, l’isolamento sociale diviene così non solo una condizione esterna, ma una sensazione interiore di disconnessione emotiva, anche quando si è digitalmente circondati da altre persone.

I giovani si stanno abituando alla presenza dell’altro in forma virtuale, divenendo sempre meno capaci di costruire legami autentici e nonostante questa presenza di legami virtuali, oltre la metà degli adolescenti dichiara di sentirsi “solo” o “escluso” nonostante l’uso intensivo delle piattaforme social.

Servono dunque azioni concrete, per contrastare questi effetti: dalla promozione nelle scuole di percorsi di educazione affettiva e relazionale, alla riscoperta delle esperienze sociali autentiche (si pensi alla bellezza delle gite scolastiche dove si cantava tutti insieme sul pullman, il pranzo al sacco, ecc… oggi ridotte non tanto da ragioni economiche, ma dalla paura per le responsabilità conseguenti ad incidenti o disguidi).

Contrastare la solitudine, nostra e degli altri, è sicuramente una sfida etica e umana di riconquista dell’esperienza dell’altro, in un’era dove la comunicazione digitale ci spinge verso relazioni improntate alla superficialità emotiva se utilizzata in modo disumanizzante.

 

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