Storie e vissuti personali di un "tutore volontario" di minori
- Livia Gay
- 7 lug
- Tempo di lettura: 6 min
di Livia Gay

Porgo la mia esperienza. Settantaduenne, psichiatra nel servizio pubblico in pensione. Da un lavoro in cui, a causa dei limiti nella disponibilità di risorse, ho dovuto “seguire” un grande numero di pazienti, in quartieri anche difficili, passare ad occuparmi al massimo di tre minori mi sembrava facile. E’ stato ancora più interessante di quello che immaginavo. Sono tutrice dal 2019 e mi sono occupata di circa 10 minori.
Tra la mia storia professionale e il nuovo impegno c’era una continuità: oltre al fatto che ci si occupa della vita di persone, c’è anche una visione di tipo sociale, in un certo senso, positivamente, "politico".
Il ruolo previsto dalle Legge 47
Essere tutore volontario, ruolo introdotto dalla Legge 47 del 2017, vuol dire cogliere l’occasione di una buona legge e avere un impegno per agire nella direzione di “una scommessa per un nuovo tipo di società” come ha detto l’onorevole Zampa stessa, che con tenacia è riuscita farla approvare. Si tratta di una legge di “sistema” che interviene con una visione ampia, per il miglioramento dell’accoglienza in una società più coesa, più pacifica e solidale. Agisce verso il nocciolo del problema. Non rimane ai margini. Nasce da un'attenta, professionale, osservazione, del fenomeno. Vede lo straniero come prima di tutto un soggetto vulnerabile in quanto minore, con dei diritti. Valorizza la spinta volontaristica che offre un contributo in cui la spontaneità, l’affettività e la fantasia può diventare importante, in aggiunta, e coordinandosi, a quanto l’istituzione deve dare. Mette alla prova la capacità di collaborare tra soggetti diversi; questa nuova soggettività, e ruolo, porta una visione ideale che può diventare anche pressione sociale, anche attraverso l'attività dell’associazione tutori, regionale e nazionale. Il tutore crede nella possibilità del cambiamento del singolo e della società, con piccoli passi per volta. Assume il ruolo genitoriale per conto del Giudice tutelare del Tribunale dei minori; non accoglie in casa il minore.
"Minori Stranieri Non Accompagnati" (MSNA)
Dalle statistiche ufficiali a maggio 2025 erano più di 16mila in Italia, circa 560 si sono “persi”: 13% femmine, gli altri maschi, 85% sopra i 15 anni; un buon numero è rappresentato dagli ucraini. Alcuni esempi: Lombardia 2.700 circa, Sicilia 4.300, Piemonte 870.
Per il minore chi siamo? Qualcuno che pensa e agisce nel loro interesse e per i loro diritti; si occupa di mediare tra il mondo, la famiglia e loro; è la possibilità di una relazione di aiuto/amicizia; un modo per comprendere meglio dove si è capitati ed eventualmente fidarsi.
Per noi chi è il minore? Un viaggio verso un nuovo paese, verso un incontro con persone ed ambienti nuovi. Siamo protagonisti nella concretezza della città e delle sue istituzioni, anche esplorando, conoscendo risorse e limiti. Siamo in un gruppo di tutori che condividono lo spirito della legge; un gruppo che aiuta nelle difficoltà, aiuta anche a sopportare i limiti del proprio intervento.
IL MSNA non è solo un soggetto vulnerabile in quanto minore, ma anche in quanto esposto ad un rischio “evolutivo”, per il trauma del viaggio, la mancanza di un adulto come guida, la difficoltà per la lingua e per la scarsa integrazione. Rischia patologie e di devianza; rischia di crescere in maniera parziale e dolorosa, sia per loro che per noi. Gli atti delinquenziali compiuti da MSNA sono statisticamente aumentati (anche se dopo la crescita fino al ’23, il numero dei minori che arrivano sta diminuendo), rappresentati da rapine e furti (gli omicidi o le aggressioni sono maggiormente compiuti da italiani). Nelle carceri, già sovraffollate, possono usufruire poco di pene alternative alla detenzione, perché quasi sempre non hanno un domicilio. Le leggi recenti, di questo governo, li hanno solo resi più numerosi nelle carceri, perché hanno saputo solo attivare il lato sanzionatorio dell’intervento.
Devianza giovanile e stranieri
Dal libro molto interessante dello psicoterapeuta Alfio Maggiolini: “Non solo baby gang. I comportamenti violenti di gruppo in adolescenza”, che approfondisce il tema del rischio e del trattamento della devianza giovanile, si legge che numericamente il problema della devianza dei minori stranieri non ha dimensioni allarmanti, ma bisogna essere realisti, dice, ed agire di conseguenza.
Cosa facciamo per affrontare i rischi sanitari, psicologici e della devianza? Per investire sul loro futuro e sul nostro? Il SAI è buono (Sistema di Accoglienza e Integrazione), dicono gli esperti, ma insufficiente: posti in comunità 6500 per i minori, che a maggio 2025 erano circa 16mila; quindi minori arrangiati con fatica, fantasia ed emergenza, con le risorse dei comuni.
Da circa due anni, per disposizione di questo governo, possono entrare, dai 16 anni, anche nei CAS per adulti (Centri Accoglienza Straordinaria) secondo una logica emergenziale, per un fenomeno che ormai è strutturale. Nei CAS c’è meno opportunità di scuola e di aiuto specialistico, sono meno seguiti quindi e più esposti a rischi. Ci sono anche minori che non trovano posto, che sono in dormitorio o per strada.
Piero Mangano presidente nazionale delle Comunità di accoglienza afferma, rispetto al problema della devianza dei minori o neomaggiorenni, che non si tratta di giustificare, ma di spiegare il fenomeno; bisogna accogliere “l’erranza” come condizione umana, e non come anomalia da correggere; capire quale è il modo migliore per accoglierla ed affrontarla. E’ necessario seguire il percorso della crescita ed offrire condizioni di sicurezza con educatori, mediatori culturali e linguistici, professionisti della relazione. L’assessore al welfare di Milano dice che ci sono 400 posti in SAI rispetto a circa 1200 ragazzi, per rispondere ad un problema che oramai è strutturale e non un’emergenza. Il servizio di accoglienza deve cambiare radicalmente, ricorda, come è attualmente rischia di ampliare i problemi piuttosto che risolverli.
Il responsabile del servizio Diaconia Valdese a Firenze afferma che il rischio di devianza e patologia esiste, ma aggiunge che nella sua lunga esperienza ha visto circa l’85% dei ragazzi lavorare o essere in formazione all’arrivo della loro maggiore età.
Note su un caso emblematico
A me danno i casi più difficili. A proposito di vulnerabilità e rischio, penso al ragazzo di 17 anni che ho conosciuto a giugno del ’22, quando era in Pronto Soccorso per un taglio auto inferto e stato di agitazione. Già da diversi mesi la comunità di prima accoglienza aveva chiesto di trovare per lui una comunità terapeutica, più protettiva, con personale più specializzato. La sua fragilità era evidente: già alcune volte era dovuto andare al Pronto Soccorso, faceva ricorso a sostanze sedative, aveva agiti auto aggressivi e forte angoscia. Era stato più di due anni in viaggio per venire in Europa, per un anno era stato in prigione in Libia dove aveva subito torture; già proveniva da una condizione problematica al suo paese.
Per iperdosaggio farmacologico, dopo tre giorni in Pronto Soccorso, è stato trasferito in terapia intensiva. I dirigenti dei servizi sanitari ed assistenziali si scontravano per decidere chi dovesse farsene carico; una soluzione in comunità adatta per lui non fu trovata e allora fu trasferito al reparto psichiatrico che, negando di essere competente per lui, ha dovuto comunque tenerlo, in attesa di una soluzione migliore. Dopo circa 10 giorni difficili fu trovata la comunità, che si occupa del trattamento della dipendenza. Il giovane assumeva una forte dose di psicofarmaci.
Verso la data della maggiore età ricorse più spesso a fughe e tagli auto inferti con necessità di cure in Pronto Soccorso. Purtoppo si allontanò dalla comunità due giorni prima di compiere gli anni e quindi dopo non ha più avuto diritto di rientrare, né di avere alternative di accoglienza. Nonostante la forte dose di psicofarmaci si ritrovò sulla strada. Eravamo a settembre e a dicembre era ancora in strada e faceva molto freddo. Il “servizio di strada” ed io ci occupavamo di lui come potevamo. Lo accompagnammo agli appuntamenti con i servizi di competenza sanitaria (psichiatria e servizio per la dipendenza), ma non emergevano mai per lui proposte che affrontassero il problema che viveva in strada. Lo accompagnammo ad un incontro in Tribunale, perché era stato richiesto, a settembre, di disporre un prolungamento dell’assistenza, visto il suo stato. La risposta arrivò dopo alcuni mesi, quando lui era in carcere, per adulti, dopo aver strappato una catenina ad una ragazza. Intanto c’erano stati anche altri passaggi in Pronto Soccorso con lesioni gravi auto inferte.
L’esperienza con questo caso e la mia competenza professionale mi indussero, a giugno ’23, ad organizzare un incontro tra rappresentanti dei servizi, agenti del terzo settore, specialisti ed avvocati, per confrontarci sul tema della fragilità e dei bisogni dell’accoglienza.
La mia conclusione è stata che l’obbiettivo principale e primario è quello di dare a tutti una buona e sicura accoglienza con personale specializzato, senza formare categorie differenziati di soggetti, a maggior o minore rischio e fragilità; bisogna evitare di fare ulteriori divisioni e creare confini che possono poi risultare solo emarginanti senza dare reali vantaggi.
Come scrive il già citato Alfio Maggiolini, tutti questi minori sono esposti al rischio di sviluppare problematiche importanti, sono vulnerabili e vanno assolutamente protetti, accompagnati nel loro percorso di crescita, in strutture adeguate e con personale esperto soprattutto nello sviluppo di relazioni costruttive, verso la maturità e l’integrazione.













































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