Il mea culpa dei socialdemocratici svedesi
Aggiornamento: 18 set 2022
di Stefano Marengo

C’è stato un tempo in cui i paesi scandinavi erano assurti a modello per i socialdemocratici e i socialisti riformisti di tutto il mondo, esempio di cultura di governo e, insieme, di sobrietà e umanitarismo nelle relazioni internazionali. Con le elezioni svedesi della scorsa settimana dobbiamo prendere atto che quel tempo è terminato. O meglio, è venuto meno l’ultimo velo di illusione che ci induceva a credere che quel modello fosse rimasto intatto. Perché la sconfitta del Partito Socialdemocratico e della premier Magdalena Andersson non ha nulla di casuale: è, a contrario, l’ultima e più funesta tappa di una vicenda decennale nel corso della quale gli stessi socialdemocratici hanno contribuito a destabilizzare e, in parte, a liquidare il virtuoso modello di welfare su cui avevano costruito le loro fortune novecentesche.
Sebbene in misura meno netta ed evidente che altrove, come è stato osservato di recente [1] anche lo stato sociale svedese ha pagato dazio alle politiche liberiste che, dopo l’89, hanno imposto la loro egemonia a livello globale. È stato in questo modo che settori nevralgici del welfare, come la pubblica istruzione e la sanità, sono via via diventati terreno di conquista per il capitale privato, il quale, d’altra parte, ha visto progressivamente venir meno molti dei paletti normativi che gli erano stati imposti nel XX secolo.

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