Riflettere sul diritto delle donne all'interruzione della gravidanza
- Rosanna Caraci
- 27 set
- Tempo di lettura: 5 min
di Rosanna Caraci

Il 28 settembre ha rappresentato un importante momento di riflessione dedicato all’interruzione volontaria di gravidanza (IVG) con la Giornata Internazionale per l’Aborto Sicuro. Infatti, sebbene la legge 194 del 1978 abbia sancito in Italia il diritto all’aborto, la sua applicazione è tutt’altro che uniforme anche per una serie di fattori strutturali e culturali.
Secondo un’indagine dell'organizzazione Medici del Mondo, nel 2023 circa il 63% dei ginecologi si è dichiarato obiettore di coscienza, con punte che superano l’85% in alcune regioni come la Sicilia. Questo alto tasso di obiezione limita significativamente la disponibilità di servizi e costringe molte donne a peregrinare da una regione all'altra o addirittura all’estero.
La sentenza del TAR Piemonte
Parlare di “vita” senza garantire condizioni materiali per viverla con dignità è ipocrisia. Una donna libera è una donna con diritti: fra questi il diritto alla salute, il diritto al lavoro e il diritto a non essere ricattata con offerte che in realtà sono meri palliativi. Difendere il diritto all’autodeterminazione significa accompagnare quel diritto con politiche strutturali che rendano reale la libertà di scegliere. Dal primo momento.
Alcuni degli stimoli forti, insieme alla denuncia, emerge dall’incontro organizzato alla vigilia della Giornata mondiale per l’aborto libero e sicuro, dall’Associazione Più di 194 voci, rete per l'autodeterminazione che, “Libro bianco sul Fondo Vita nascente”, alla mano, apre un ulteriore varco nell’analisi sulla condizione femminile in Piemonte, dal diritto alla libera scelta sulla maternità passando alla pari opportunità lavorativa.
Negli ultimi anni il dibattito in Piemonte si è inasprito per interventi istituzionali e iniziative di associazioni che promuovono alternative alle IVG, come il Fondo “Vita nascente” e progetti di “ascolto” in strutture ospedaliere. Tra l'altro, il TAR del Piemonte ha annullato la convenzione relativa alla “stanza dell’ascolto” al Sant’Anna, giudicandola incompatibile con la tutela dell’autodeterminazione delle donne.
È stato un segnale che le istituzioni giudiziarie hanno riconosciuto come sia critico l’affidamento di spazi ospedalieri a iniziative che rischiano di condizionare la scelta delle donne e mettere nel mirino, anche politicamente, la loro libertà.
Tutto, per gli antiabortisti e più in generale per l’ideologia conservatrice, sembra spostarsi sulla politica del bonus, del contributo. Qualche migliaia di euro e qualche sconto per far cambiare idea. Come se dare alla luce una vita fosse marketing, contrattazione, mercantilismo. Sembra ancora complesso, per molti, comprendere come la logica di chi si trova a scegliere non sia che cosa convenga di più, ma nella responsabilità con cui le decisioni vengono prese.
In lieve calo il numero di medici obiettori di coscienze
All’Ospedale Ostetrico-Ginecologico Sant’Anna di Torino nel 2022 sono state registrate 2.028 interruzioni volontarie di gravidanza. Questo numero non è astratto: dietro ogni IVG ci sono donne che hanno valutato rischi, condizioni economiche, lavoro, relazioni familiari. Dunque, è una scelta da rispettare e tutelare.
L’obiezione di coscienza fra i ginecologi in Piemonte resta un fattore che pesa sull’accesso alle cure. Anche se negli ultimi anni si è osservata una lieve diminuzione degli obiettori, i dati regionali segnalano che una quota consistente del personale pubblico lo era (nel 2022, su 327 ginecologi pubblici circa 180 erano obiettori, all’incirca il 55%), con l’effetto che strutture come il Sant’Anna concentrano gran parte degli interventi. Quando le donne devono spostarsi o si trovano in liste d’attesa lunghe, la libertà di scelta viene sostanzialmente limitata.
Aiutare significa offrire autonomia, non concessione. In Piemonte i servizi che potrebbero sostenere la genitorialità, consultori familiari e centri per le famiglie esistono, ma la loro capillarità e la dotazione di personale sono limitate: l’ultima indagine dell’Istituto superiore di Sanità è del 2018-19 e registrava 122 sedi consultoriali censite nella regione (1 sede ogni 36.000 residenti), con una disponibilità di personale spesso inferiore agli standard e con meno della totalità delle sedi che offrono corsi di accompagnamento alla nascita. Questo significa che molte donne — e soprattutto chi vive in condizioni di fragilità — non trovano a portata di mano servizi davvero strutturati. E non è solo una questione di salute o di diritto: è anche una questione di condizioni materiali che rendono la libertà di scelta o concreta o pura illusione.
Molte donne, soprattutto le meno istruite o con figli piccoli, abbandonano il lavoro o accettano il part-time involontario che non è frutto di una scelta personale, ma della mancanza di alternative (nidi troppo cari, posti insufficienti, congedi parentali limitati etc.). Si tratta, quindi, di situazioni concrete che si scontrano con l'ideologizzazione del problema, che tende a trascurare la necessaria progettualità di una risposta sociale. Ed è quantomai inutile e improduttivo esasperare lo scontro ideologico, poiché le donne oggi sono sufficientemente avvertite che la vera parità di genere si otterrà solo quando la discussione sull’universo femminile non sarà oggetto di manipolazioni ideologizzate.
Il Rapporto Save the children
L’essere madre single gioca un ruolo anche sulla questione lavorativa. Secondo il rapporto “Save The Children. Le Equilibriste, la maternità in Italia 2025”, in Piemonte l’occupazione materna è al 74,5%. Questo significa che una parte significativa delle madri è occupata, ma non dà l’informazione su quante abbiano lasciato il lavoro dopo la nascita del figlio per necessità. Dati nazionali (CNEL-ISTAT) mostrano che le madri hanno tassi di occupazione inferiori, specialmente se con figli piccoli o in coppia, e che molti casi di uscita dal lavoro sono legati alla difficoltà di conciliazione o mancanza di servizi.
In Italia, le madri sole rappresentano il 9,4% delle donne occupate, con 941mila lavoratrici su un totale di quasi 10 milioni di occupate. Tra le madri sole lavoratrici, quasi sette su dieci (69,6%) hanno un'età compresa tra 45 e 64 anni, superando di 11 punti percentuali le madri in coppia in questa fascia d'età.
Tra di loro emerge una presenza significativa di donne di origine straniera (12%). Il loro livello di istruzione rappresenta una sfida importante, con un quarto (25,3%) che possiede un basso titolo di studio. Il 19,7% si trova in situazione di part-time involontario. Inoltre, rispetto ad altre categorie di lavoratrici, le madri single sono sovra rappresentate in professioni non qualificate, con una concentrazione particolare nei settori dell'ospitalità, della ristorazione e dei servizi alle famiglie.
Si conferma una netta frattura tra Nord e Mezzogiorno. Nel 2024, il tasso di occupazione delle mamme single tra i 25 e i 54 anni supera l’83% nel Nord, sia per le madri con almeno un figlio minore che per il totale delle madri sole, mentre nel Mezzogiorno non va oltre il 45,2%, con un leggero aumento rispetto al 2023. Nel Centro si registra una crescita più contenuta, ma comunque positiva. Questi dati segnalano un miglioramento, ma anche la persistenza di un forte squilibrio territoriale.
Per titolo di studio, la relazione è molto marcata: le madri sole con un livello basso di istruzione hanno tassi di occupazione molto inferiori rispetto a quelle con diploma o laurea. Nel 2024, solo il 44,2% delle madri single con almeno un figlio minore e al massimo la licenza media risulta occupata, contro il 71,2% tra le diplomate e l’87% tra le laureate. Il titolo di studio si conferma quindi una leva fondamentale per l’inserimento lavorativo delle madri sole, ancora più che per la popolazione femminile in generale.
Rispetto all’età, i tassi aumentano con l’avanzare dell’età anagrafica: nel 2024, solo il 53,1% delle madri sole tra i 25 e i 34 anni, con almeno un figlio minore, è occupata, a fronte del 64,8% tra le 35-44enni e il 75,5% tra le 45-54enni con almeno un figlio minore78. Il dato più basso tra le più giovani può riflettere sia difficoltà di ingresso nel mercato del lavoro, sia l’impatto più diretto della cura di figli più piccoli.
Che cosa serve, dunque? Certo potenziare i servizi territoriali: più consultori con personale adeguato, più corsi di accompagnamento alla nascita accessibili, non per convincere una donna a tenere un figlio, ma per far sì che scegliere di avere un figlio non sia sinonimo di povertà e perdita di lavoro. I numeri dell’Istituto superiore di sanità mostrano che la Regione dispone di strumenti ma manca spesso personale e capillarità.
Necessitano asili nido pubblici e gratuiti, contratti stabili, congedi parentali equi e misure anti-discriminazione per chi rientra al lavoro dopo la maternità. Non è un “aiuto” simbolico: è la differenza tra autonomia e dipendenza.













































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