top of page

Quando l'ebreo è bollato come antisemita dall'Occidente

di Stefano Marengo


Lo scorso fine settimana a Berlino la polizia tedesca ha arrestato un manifestante per la Palestina con l’accusa di diffondere odio antisemita. Fin qui, si dirà, non c’è nulla di particolarmente interessante. Le cose però cambiano appena ci si rende conto che l’uomo arrestato e accusato di antisemitismo si chiama Udi Raz ed è un ebreo tedesco-israeliano, ben riconoscibile per via della kippah colorata che è solito indossare.[1]

La vicenda ha qualcosa di paradigmatico. Raz, infatti, stava pacificamente protestando contro la decisione delle autorità tedesche di impedire lo svolgimento di una conferenza sulla Palestina a cui avrebbero dovuto partecipare diverse personalità di levatura internazionale. Tra questi si segnala in particolare Ghassan Abu Sitta, chirurgo palestinese-britannico e neoeletto rettore dell’Università di Glasgow, che si è visto negare il visto d’ingresso in Germania. Un analogo divieto è stato successivamente emanato nei confronti del politico e intellettuale greco Yanis Varoufakis, a cui la Repubblica Federale impedisce di prendere parte a iniziative sulla Palestina anche in modalità telematica.

Ma ritorniamo all’arresto di Udi Raz, il cui caso non è per nulla isolato. Dall’inizio del massacro di Gaza si è perso il conto del numero di ebrei antisionisti arrestati in Europa e Nord America per aver manifestato al fianco dei palestinesi. Negli Stati Uniti le manette scattano ormai quasi quotidianamente contro esponenti di Jewish Voice for Peace e If Not Now. L’accusa, esplicita o parafrasata, è sempre la stessa: diffusione di odio antiebraico.

La situazione appare grottesca. Qui infatti ci troviamo di fronte ad autorità pubbliche che non solo si ritengono titolate a spiegare a degli ebrei cos’è l’antisemitismo, ma anche come dovrebbero sentirsi al riguardo. È difficile riuscire a immaginare qualcosa di altrettanto autoreferenziale e, insieme, estremamente ridicolo. Ma, come tutti i paradossi, anche questo allude a suo modo alla verità: gli ebrei non sono trattati come persone e cittadini come gli altri, ma sono feticizzati e strumentalizzati in una lotta politico-ideologica il cui unico fine è la giustificazione senza condizioni del sionismo, di Israele e delle sue politiche. Non sfuggirà, en passant, come questa feticizzazione sia in realtà una vera e propria razzializzazione che nega alle donne e agli uomini ebrei autonomia di giudizio ed espressione e li costringe a forza sotto un’etichetta – quella del sionismo – con la quale molti di loro non intendono avere nulla a che spartire. Non è forse questo un atteggiamento strutturalmente antisemita? Domanda che ovviamente non potremmo mai girare al primo ministro israeliano Netanyahu la cui condotta politica, esente da ogni approccio dialogico, è offuscata dall'unico desiderio di usare l'odio per rimanere al potere.

Se la difesa incondizionata di Israele da parte delle autorità occidentali non è aliena dal ricorso ai tropi dell’antisemitismo più inveterato, altrettanto significativo e preoccupante è il modo con il quale l’apparato mediatico produce e manipola le informazioni. Già all’indomani del 7 ottobre era stata messa in circolo la notizia di quaranta bambini israeliani uccisi e decapitati da Hamas. L’informazione si sarebbe presto rivelata totalmente falsa, fabbricata, ma intanto aveva raggiunto lo scopo di suscitare nel pubblico uno sdegno viscerale che, in termini pratici, avrebbe dovuto assecondare ogni azione ritorsiva da parte di Israele. Episodi simili, anche se meno sensazionalistici, sono stati una costante degli ultimi sei mesi. È delle scorse ore la notizia che lo stand israeliano alla Biennale di Venezia rimarrà chiuso. A deciderlo è stata la stessa artista che avrebbe dovuto esporre le proprie opere, Ruth Patir, la quale ha dichiarato che il padiglione non aprirà “finché non ci sarà un cessate il fuoco a Gaza e la liberazione degli ostaggi”. Diversi quotidiani italiani, tra i quali La Stampa, hanno inizialmente coperto la vicenda con titoli che hanno ripreso solo la seconda parte della dichiarazione di Patir – quella sulla liberazione degli ostaggi – omettendo del tutto la richiesta di cessate il fuoco. 

Questo modo di fare informazione, intellettualmente discutibile, per usare un eufemismo, diventa pericoloso quando a essere in questione non è un’esposizione artistica o un qualsiasi altro evento mondano, ma relazioni internazionali ed equilibri geopolitici che, se compromessi, rischiano di degenerare in conflitti cruenti e incontrollabili. In questo caso la copertura che è stata data dell’iniziativa militare iraniana contro Israele parla da sé. Quasi tutti i principali organi di informazione, così come l’establishment politico occidentale, hanno infatti avvalorato la tesi di un “attacco” gratuito su suolo israeliano da parte dell’Iran, facendo di conseguenza da grancassa alle intenzioni di rappresaglia subito manifestate dal governo di Tel Aviv e rubricate, come di consueto, sotto il titolo di “diritto all’autodifesa”. A mancare del tutto dalla cronaca è stato ancora una volta il contesto, e cioè l’evidenza del fatto che quello della Repubblica Islamica è stato un contrattacco, ossia una risposta al bombardamento della sede diplomatica iraniana di Damasco avvenuto il primo aprile scorso per mano dell’aviazione israeliana (un’aggressione senza precedenti che ha provocato 13 morti, tra cui il comandante della Sepah-e Quds Mohammad Reza Zahedi). Se di “diritto all’autodifesa” si può parlare, è chiaro come in questo caso esso sia in capo a Teheran, non ad Israele.

Questo tipo di narrazione non ha più nulla a che fare con la libera informazione; si tratta invece di una strategia comunicativa al servizio di precisi scopi propagandistici. Come in ogni scenario in cui, per ragioni belliche, il potere ha interesse a costruire l’immagine del nemico ideale e ad alimentare sentimenti di odio nei suoi confronti, i media stanno oggi dividendo il mondo tra la cerchia di coloro che sarebbero incondizionatamente buoni, ossia Israele e i suoi alleati, e il novero di coloro che sarebbero irrimediabilmente cattivi, cioè l’Iran, i palestinesi e, a seguire, gli Houthi, Hezbollah e chiunque si opponga alle politiche di dominio israeliane. Le evidenze fattuali non hanno diritto di cittadinanza. E così poco importa che l’Iran, nel suo contrattacco, abbia deliberatamente impiegato droni e missili facilmente intercettabili dalle difese israeliane (l’azione militare, infatti, non ha causato vittime). E nemmeno importa che l’ambasciatore iraniano alle Nazioni Unite, a seguito del bombardamento, abbia ufficialmente dichiarato che la “questione [della risposta ad Israele] può considerarsi conclusa”. I fatti, semplicemente, vengono omessi o sagomati a vantaggio di Israele. In altre parole, l’establishment politico e mediatico euroatlantico sta oggi giocando di sponda con le pulsioni belliciste di Tel Aviv, costruendo al contempo una narrazione falsa che scarica sull’Iran la responsabilità di un’eventuale escalation.

Su questa base propagandistica sono poi fiorite le argomentazioni più fantasiose e spregiudicate. C’è ad esempio chi dice che l’Iran, non essendo una liberaldemocrazia, non deve poter vantare alcun diritto a livello internazionale. Tesi tanto suggestiva quanto catastrofica per uno dei caposaldi della stessa liberaldemocrazia, ossia l’idea di un “ordine mondiale fondato sulle regole”: come si fa a costruire e mantenere tale ordine se solo le liberaldemocrazie hanno tutti i diritti (compreso quello di aggredire), mentre gli altri non ne hanno nessuno (nemmeno quello di difendersi)? Certe impennate retoriche, prive di fondatezza oltre che nutrite di massicce dosi di eurocentrismo e razzismo, hanno il guaio di esasperare gli animi e di squalificare sul nascere ogni tentativo di analisi razionale. Et pour cause. Oltre a svalutare le iniziative per contribuire con mezzi legittimi e trasparenti a promuovere la democrazia in stati illiberali.

Lo storico di Cambridge Christopher Clark ha utilizzato la parola sleepwalkers (“sonnambuli”) come titolo del suo libro sulle classi dirigenti europee negli anni che precedettero la Prima Guerra Mondiale. L’idea di base, suffragata da una grande mole di materiale documentario, è che i governanti di allora gestirono il potere in modo solo apparentemente vigile e consapevole: la loro fu in realtà una sorta di coazione a ripetere che, alimentando rivalità, odi e contrapposizioni, li rese ciechi di fronte alle conseguenze di scelte che, in una spirale impazzita, avrebbero condotto l’intero continente nel cuore dell’inferno. Quasi a voler confermare l’aforisma gramsciano secondo cui “la storia è maestra, ma non ha scolari”, le classi dirigenti occidentali appaiono oggi ugualmente afflitte da sonnambulismo. La loro coazione a sostenere incondizionatamente Israele espone il Medio Oriente e il mondo intero al rischio di un’escalation che, una volta innescata, non potrà più essere governata. A pagarne il prezzo, come sempre, saranno i popoli.

A questo riguardo bisogna prendere atto di come i diritti di un popolo, quello palestinese, siano variabili che solo accidentalmente rientrano nei calcoli di dominio dell’Occidente. Non sono bastati 75 anni di oppressione e, oggi, 35mila persone massacrate a Gaza; la voce della Palestina, il suo grido di dolore, rimane un urlo nel deserto. Per le nostre classi dirigenti i palestinesi rimangono vite di scarto. O, nell’ipotesi più gentile, effetti collaterali del potere.


Note

[1] Le immagini dell’accaduto sono visibili, tra l’altro, in questa intervista concessa da Udi Raz a Owen Jones alcuni giorni dopo l’arresto: https://www.youtube.com/watch?v=86CZatA7CsY

101 visualizzazioni4 commenti

Post recenti

Mostra tutti
bottom of page