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Lodetti, il "Basléta" tra anniversari e amarcord

di Marco Travaglini


Lo chiamavano “Basléta”, colpa del mento sporgente, raccontano le cronache che non avevano ancora inquadrato quello di Luis Enrique, l'ex tecnico della nazionale spagnola. Ma la storia di Basléta sa di romanzo, anche se non lo è, forse per via di quel prete dell'oratorio in cui giocava che lo cede al Milan per 100 mila delle vecchie lire.

Siamo nella seconda metà degli anni Cinquanta. Così prende l'abbrivo di Giovanni Lodetti, uomo di fatica a centrocampo, che oggi compie 81 anni. Una bandiera Lodetti, di quelle che non esistono più nel mondo del calcio, un mondo in cui - altro che 100 mila lire - fiumi di denaro passano dalle casse di una società all'altra nel gran bazar del pallone in cui i giocatori cambiano casacca alla stessa velocità di una camicia.

Nostalgia. Amarcord di un altro pianeta. Tutto vero, ma è difficile non rimanere ancora affascinati a quelle storie di giocatori "attaccati alla maglia" fino ai limiti della propria carriera pedatoria, personaggi scomparsi dai radar, cancellati da cambiamenti forse irreversibili. Eppure c'è stato un tempo in cui, più che i soldi, erano le passioni e l'influenza (per dirla alla Brera) della dea Eupalla, protettrice del calcio e del bel gioco, a muovere la sfera di cuoio tra i ventidue uomini sul campo. Ed una di queste storie è certamente quella di Giovanni Carlo Lodetti, che diede il meglio di sé ai tempi del golden boy, al secolo Gianni Rivera.

Lodigiano di Caselle Lurani, in una intervista di qualche tempo fa Lodetti ha sostenuto che "i giocatori di oggi sono troppo viziati" e che è meglio "il calcio delle periferie". E lui, che correva come un dannato sui campi, sostenuto dalla passione estrema di giocare al calcio, è stato tra quelli più coerenti nell'interpretare la vita sportiva nel modo giusto. Non che i soldi gli facessero schifo, anzi. Soprattutto per chi, in famiglia, ne aveva visti pochi, come la maggior parte dei giocatori di quell'epoca. Ricordando la sua prima partita da professionista con la maglia rossonera, raccontò: "Il primo choc è stato dopo l'esordio in A, a Ferrara, che finì 3-0 per noi. Il martedì, all'Arena, Maldini mi mette in mano il mio primo premio-partita, 180 mila lire. Diciotto fogli rosa, tant'è che li chiamavano salmoni, grandi come mezzo tovagliolo. Per paura che in tram me li rubassero sono andato a piedi dall'Arena al Corvetto e prima di cena li ho consegnati a mio padre, che guadagnava 45 mila al mese. Li ha presi, li ha contati lisciandoli sul tavolo, dopo il sesto già mia mamma piangeva. E alla fine papà m'ha detto "brao Gioannin", e se li è messi in tasca. Un poco ci sono rimasto male, speravo che almeno un deca me lo lasciasse, ma mi è passata subito".

Una vita da mediano, quella del figlio di un falegname, con una mamma che gli ripeteva "el dané dana", il danaro danna, quasi fosse un modo per consolarsi di essere poveri. Grazie a quei polmoni inesauribili che spinsero Liedholm a soprannominarlo Bikila, come l'atleta etiope che vinse a piedi nudi la maratona alle Olimpiadi del '60 a Roma, Lodetti con il Milan di Gipo Viani, Nils Liedholm e Nereo Rocco vinse due scudetti (1962, 1968), due coppe dei Campioni (1963, 1969), una coppa Intercontinentale (1969), una coppa delle Coppe (1968) e con la maglia azzurra della Nazionale (17 presenze, 2 gol) fu campione d'Europa nel 1968. Poi, per ragioni di mercato, venne ceduto ai blucerchiati della Sampdoria e, quattro anni dopo, al Foggia per terminare, nel 1978, la sua carriera da professionista con il Novara in serie C.

Una carriera di tutto rispetto, che il Basléta interpretò con lo spirito di sempre, portandosi da solo la sua valigia anche quando era appesantita dalle amarezze come nei giorni del rientro anticipato dai Mondiali di Messico '70, rimasti nella memoria per il 4-3 alla Germania e per i sei minuti di Rivera nella finale (persa) con il Brasile di Pelè. La storia è nota. Convocato per il mondiale messicano, Lodetti venne sacrificato dal commissario tecnico Valcareggi quando già si trovava in ritiro con il resto della squadra. Vicenda curiosa: lo juventino Pietro Anastasi, centroavanti, autore di uno dei due goal (l'altro fu di Gigi Riva) con cui l'Italia era diventata campione d'Europa nel '68, ebbe un malore alla vigilia della partenza. Allora, il C.T chiamò due possibili sostituti, ovvero il suo compagno di squadra Pierino Prati, detto "Pierino la peste" e il bomber interista Roberto Boninsegna. Non riuscendo a decidere quale dei due tenere, li confermò entrambi, ma a quel punto fu Lodetti a dover fare le valigie. Decisione ammorbidita dalla proposta di passare comunque l'estate in Messico per una vacanza gratis, famiglia al seguito, che venne sdegnosamente rifiutata con un comprensibile moto d'orgoglio. In aggiunta, a far più male, al ritorno in Italia, si trovò il "benservito" dal Milan, che lo cedette senza nemmeno avvertirlo.

E' ancora Lodetti a commentare il fatto: "Allora non c'erano procuratori e nemmeno il sindacato dei giocatori. Ti cedevano e basta. Dal Milan alla Samp voleva dire non giocare più per gli scudetti, né per le coppe, ma per salvarsi magari all'ultima domenica. Mi è cascato il mondo addosso anche se poi alla Samp mi sono trovato bene". Ma la parte più bella della storia, quella che servirebbe ancora oggi a tanti, inizia proprio dalla fine della carriera, dal giorno dell'addio ai campi. E' in quel momento che la passione, nata sul campetto dell'oratorio, dietro la chiesa del suo paese nella bassa lodigiana, si rifiutò di andare in pensione. Così una mattina, mentre guardava dei ragazzi giocare a calcio nel parco di Trenno ( ora parco Aldo Aniasi ) nei pressi di San Siro, vide che la squadra che perdeva aveva un giocatore in meno.

"Avevo smesso da poco, era ora di dire basta, a 36 anni", racconta Lodetti. "Non resisto e vado dietro al loro portiere: "Scusa, mi fate entrare?" Quello si volta e mi dice, a bruciapelo: "Ma dai, qui siamo tutti giovani". Insisto: "Gioco anche in porta". Alla fine uno mi fa segno di entrare e dopo un poco mi dice "Sai che sei buono? No, dico sul serio. Come ti chiami?". Allora gli racconto che ho fatto tornei aziendali. Avevo un giubbotto con scritto Ceramica e gli dico "Mi chiamo Ceramica". Mi hanno guardato un po' strano, ma mi hanno accettato e da quel momento, per più di vent'anni, ogni sabato mattina Ceramica se n'è andato al parco di Trenno a giocare a divertirsi di nuovo: passa Ceramica, tira Ceramica, bravo Ceramica. Solo due anni dopo un tizio mi ha smascherato".

Un uomo in bici, in su con gli anni, l'aveva squadrato per bene e poi aveva detto "Ueì, ragazzi, ma lo sapete chi è quello lì? È uno che giocava nel Milan. E' il Lodetti. Un giorno l'ho visto cancellare Bobby Charlton". Finito l'anonimato è continuata la passione. "A mia moglie dicevo che andavo a giocare a tennis, sennò stava in pensiero. Le scarpe da calcio numero 42 coi tacchetti di gomma me le portavano a Trenno. Solo quando mi sono incrinato quattro costole ha capito che non giocavo a tennis".

Questa è la storia di Giovanni Lodetti, che giocava a calcio con Gianni Rivera e con i ragazzini. Una di quelle storie che ricordano ancora le immagini nelle foto in bianco e nero, dove i contrasti erano più netti e visibili mentre oggi, nel bagliore dei flash e nell'orgia mediatica, si fatica a raccapezzarsi. Ancora oggi Lodetti, a chi gli chiede quale sia la differenza tra il calcio dei suoi tempi e quello di oggi, risponde citando "il controllo telefonico di Cattozzo", un tecnico del Milan che telefonava a casa dei giocatori alle 22.45." Se non rispondevi, multa. Invece a quell'ora o anche più tardi molti oggi escono di casa per andare in discoteca. Io ci ho messo quasi due anni a farmi una 600, questi hanno la Ferrari appena arrivano in serie A. Ma non so se sono felici, hanno tutto in apparenza ma non la passione".

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