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Lo Russo e Torino: è il momento di avviare un confronto aperto

di Beppe Borgogno


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Prima l’affluenza più alta che altrove (oltre il 41 per cento), pur nella sconfitta, sui referendum. Poi la sentenza del TAR, positiva per la città,  sulla inapplicabilità della legge regionale voluta apposta dall’assessore Marrone per ostacolare il recupero del locale storicamente occupato dal centro sociale Askatasuna, come “bene comune”. Intorno, la fine di alcuni grandi cantieri a lungo aperti in città, a cominciare dalla pavimentazione di via Po, che iniziano a mostrare qualche effetto dei massicci investimenti fatti negli ultimi anni.

Le ultime settimane hanno offerto al sindaco Stefano Lo Russo quanto meno una serie di “atout” che potrebbero consentirgli, e se mai cogliesse l’occasione per uscire dal suo proverbiale ed anche talvolta criticato “low profile”,  di agire su uno spazio oggi politicamente assai ampio.

Quelli accaduti non sono certo fatti di portata epocale, è vero: quella dei referendum è comunque una sconfitta e ci consegna ancora una volta la fotografia di un’area della città, quella a nord di corso Regina Margherita, sofferente e sfiduciata; sulla vicenda Askatasuna permangono contraddizioni e punti da chiarire ben oltre una semplice sentenza amministrativa; via Po non è da sola l’immagine di una città che riparte e intravede orizzonti nuovi.

Di questi tempi però conviene vedere il bicchiere mezzo pieno, e se si apre uno spazio appare logico interrogarsi su come occuparlo e farne tesoro. E siccome lo spazio della politica e della sua capacità di guidare processi profondi si sono nel tempo, per tante ragioni, sempre più ridotti, sembrerebbe giusto che proprio la politica si desse una chance, per provare, insieme con altri, a darne una alla città.

E’ troppo dunque aspettarsi che qualcosa accada? Non è forse il caso, da parte di chi guida la città, di usare questa fase per accelerare il passo su alcune necessità di merito e politiche?

Proviamo ad immaginare almeno due terreni su cui, forse, una accelerazione avrebbe senso.

A proposito della sofferenza dell’area nord di Torino, è di questi giorni la notizia della costruzione, annunciata dal Prefetto della città, di un “Osservatorio  per le Periferie”. Sembrerebbe, a quanto descrivono i giornali,  un esperimento interessante in cui si sommano finalmente diverse azioni per dare vita ad interventi di “sicurezza integrata”: contrasto del degrado, sicurezza e coesione sociale che viaggiano insieme, con interventi che coinvolgono le aree pubbliche, le scuole, e che si sostanziano del contributo delle associazioni che operano su territorio e persino di soggetti privati. Sembrerebbe, almeno sulla carta, proprio quello che la città ha chiesto nei mesi scorsi, quando sembrava che i problemi fossero da delegare alla sola presenza delle forze dell’ordine, indispensabile ovviamente, e dell’esercito, e che tutto si risolvesse con l’istituzione delle cosiddette “zone rosse”.

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Se fosse così, allora avrebbe segnato un punto a proprio favore l’unica logica possibile per arginare o almeno contenere il disagio e la problematicità delle aree critiche di ogni grande città: portare qualità, fare massa critica tra le istituzioni e chi vive ed opera nei territori, investire su tutto ciò che ha a che fare con la qualità urbana e la cura del bene di tutti, compresa la sicurezza, oltre la semplicistica logica securitaria. Senza dimenticare che si può lavorare sull’integrazione solo se si spezza il mainstream che vede un’automatica equazione tra immigrazione e degrado, viva e divisiva anche a sinistra come almeno in parte dimostrano i risultati del referendum sulla cittadinanza, in particolare proprio nell’area nord della città.

E se fosse così, allora non sarebbe questa l’occasione per “battere il ferro finché è caldo”? Cioè per rendere esplicito e visibile, da parte dell’amministrazione della città, il suo tentativo di cambiare il paradigma che fino qui l’ha costretta a subire ogni genere di attacco e ad agire di rimessa?

Sarebbe forse questo il momento giusto per far salire nella scala delle priorità e per far emergere l’impegno a portare più qualità in quel pezzo di città, a fare rete autentica con il territorio, e per mettersi alla guida di un percorso al cui centro non ci siano più soltanto paura, rabbia e occupazione militare del territorio, ma investimenti su tutto ciò che caratterizza l’ambiente urbano, per rendere più “conveniente” vivere da quelle parti. Magari provando anche, finalmente, a fare di tutto questo una priorità comunicativa, raccontandolo come è giusto e come si deve.

Un cambio di paradigma, appunto: decidendo quindi per esempio che da ora si comincia  da lì a potenziare l’illuminazione pubblica, a curare il verde, a incentivare l’aggregazione, i servizi, il commercio. Dedicando a questo sforzo anche una diversa organizzazione della “macchina amministrativa” per orientarla a un nuovo ordine di priorità nella gestione delle risorse. Investendo, quindi, su un cambio di visione che costringa questa volta gli altri, gli interlocutori istituzionali come gli avversari politici, a cambiare passo e a prendersi qualche responsabilità. Sembra semplice, ma non è così.

Chiunque conosca almeno un poco l’organizzazione politico-amministrativa della città può provare ad immaginare quanto sia impegnativo lavorare sulle gerarchie, le consuetudini e le abitudini interne, e che i due anni che l’amministrazione di centrosinistra ha di fronte sono appena sufficienti a far capire sul serio che qualcosa sta  cambiando, che alla vita in quei territori si è aggiunto valore. Due anni scolastici, per esempio, non sono certo troppi per  investire ancora di più e in modo mirato sull’offerta educativa e il valore sociale di quelle scuole. Insomma, invertire il paradigma significa provare a mettere davanti il locomotore degli investimenti nei territori critici. E “integrare” davvero le azioni per raggiungere migliori obiettivi di sicurezza. Oppure si rischia che queste necessità rimangano poco più della routine, e che distanza e sfiducia continuino a crescere per la mancanza di risultati visibili e di comunicazione efficace.

La seconda accelerazione possibile riguarda invece il percorso politico da qui in avanti.

Gli ultimi, parzialissimi e recenti “successi”, comunque non trascurabili, potrebbero aiutare Stefano Lo Russo  ad aggredire il tema politico di fondo: quale sia la visione futura di città e quali i protagonisti per realizzarla, cioè le idee e le forze che dovranno essere alla base della sua prossima, auspicabile, ricandidatura. Tema, questo, che non riguarda  tanto e solo gli schieramenti, i partiti e le sigle, ma le idee e le forze della città, in tutte le sue componenti, con cui è necessario lavorare ed “allearsi”.

Nulla di urgentissimo, per carità. Ma i segnali che qua e là si colgono potrebbero consigliare di muoversi senza attendere troppo.

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Se da una parte c’è chi dice che proprio i risultati referendari dello scorso fine settimana raccontano che Torino rimane un “fortino inespugnabile”, e questo basterebbe per placare i possibili avversari di Lo Russo interni al centrosinistra, dall’altra proprio nel centrosinistra qualche insoddisfazione  qua e là affiora. Senza però che nessuno si impegni  davvero per renderne esplicite le ragioni, né per proporre una discussione franca e in campo aperto. Al di là della fondatezza della critiche che talvolta si sentono, questa tendenza a manifestarle nella forma del mugugno, ma anche quella ad ignorarle, al centrosinistra torinese non ha mai portato bene. Ed essere così ottimisti mentre lo schieramento avversario non da ancora notizie di sé appare almeno azzardato.

Nelle scorse settimane la messa in campo di Alleanza per Torino aveva aperto, almeno sui mezzi di informazione, qualche spazio di discussione sui progetti per la città, sul ruolo della società civile e sul suo coinvolgimento per disegnare il futuro.

A un’iniziale apparente interesse è seguito un copione che forse ci si doveva attendere: da parte del civismo già “organizzato” sono arrivati parecchi distinguo e la tendenza a difendere i territori “di competenza”, e dalle forze politiche un sostanziale disinteresse. Indipendentemente dalla bontà o meno, e dalla tanta o poca chiarezza di quel progetto, dunque, un coro, in parte rumoroso e in parte muto, che è sembrato recitare un bel “bastiamo noi, non serve altro”.

La tendenza a cronicizzare il pericoloso riflesso di “autosufficienza” potrebbe essere un problema da affrontare prima che metta radici ancora più profonde: il rischio è quello di non vedere, o vedere con un’ottica distorta gli errori, i ritardi e le lacune che nei quasi quattro anni di amministrazione sono più di una volta emersi, e di allontanarsi dal dialogo con la città.

Il lavoro più importante rimane in realtà tutto da fare:  pensare e costruire un nuovo sviluppo per la città, costruire  una leadership diffusa, ampia e visibile, di cui chi amministra sia il perno,  in grado di garantire e di guidare quel percorso di sviluppo. Cioè quello di cui Torino ha sempre più bisogno, di cui più volte si è parlato su queste pagine, e che finora è mancato nella confusione tra ciò che è strutturale e ciò che lo è di meno, finendo quindi per confondere, anche nella narrazione, novità contingenti e visioni di ampio respiro.

Chissà che la nuova forza “relativa” di cui dispone il Sindaco non vada oggi indirizzata proprio qui: chiamando ognuno, nel territorio della politica ma non solo, a un esercizio di responsabilità per costruire un patto che guardi al futuro. E’ una discussione che può iniziare subito, chiamando tutti allo scoperto. Per vedere chi ha idee e chi non ne ha, chi è davvero disponibile ad un percorso e chi no. E per chiedere al civismo e alla politica di provare a dare un contributo oltre le semplici rendite di posizione. Una discussione da affrontare chiedendo a tutti di portare idee e senza troppi pregiudizi, perché oggi troppo pregiudizi  finirebbero solo per alimentare il circuito dell’autosufficienza.

Quello di una discussione e di un confronto aperto con la città è l’unico “campo” che, di qui in avanti, conta davvero, stretto o largo che sia.

 

 

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