top of page

Intelligenza artificiale e potenziamento umano, le sfide del Terzo Millennio


di Enrico Larghero

L’intelligenza artificiale ha 70 anni, l’intelligenza umana ne ha due milioni. Di sicuro non possiamo tornare indietro, né fermare le macchine, quindi la nostalgia non sembra essere una buona guida. Non è detto, poi, che si debba scegliere tra i due poli opposti del catastrofismo tecnoscettico e dell’entusiasmo acritico verso qualsiasi gingillo digitale. Meglio essere tecno-ottimisti con beneficio d’inventario e con la guardia alta. Queste parole del filosofo e biologo Telmo Pievani uniscono con un filo invisibile la tematica dell’intelligenza artificiale (cui sono stati dedicati alcuni illuminanti interventi su La Porta di Vetro[1]) con un altro argomento di grande attualità: il potenziamento umano.


Gli albori del Terzo Millennio proiettano l’umanità in uno scenario nuovo, contraddistinto nell’era della globalizzazione da una società multietnica, multiculturale e plurivaloriale.


Il pessimismo di Hannah Arendt

La prospettiva antropocentrica e totalizzante del dominio tecno-scientifico sulla vita e sulla materia sembra permettere la realizzazione del sogno prometeico dell’uomo, quale arbitro assoluto ed incondizionato del suo destino. Da ciò una prospettiva ulteriore ed autoreferenziale di un mondo sotto l’assoluto controllo umano.

Le leggi della natura non dipendono più da un ordine cosmico, da un progetto superiore, trascendente: il bios viene plasmato dalla ragione ad uso e consumo dell’essere umano. Le scienze della natura e le tecnologie moderne – ribadisce in modo forse pessimistico Hannah Arendt – non si limitano più a osservare i processi naturali, ma agiscono praticamente in essi ed hanno portato l’irreversibilità e l’imprevedibilità nel dominio dell’uomo sulla natura e non esiste rimedio per annullare ciò che è stato fatto.

Tuttavia, il XX secolo, definito per la densità dei suoi avvenimenti come il “secolo breve”, ha squarciato il velo, ha aperto una crepa nel muro apparentemente solido del sapere scientifico, figlio dell’Illuminismo. L’era atomica ha infatti posto l’umanità di fronte a problematiche nuove. L’utopia dogmatica di una scienza senza vincoli morali, che deve rendere conto unicamente a sé stessa ed in cui tutto ciò che e tecnicamente possibile può essere attuato, è entrata profondamente in crisi. Il concetto di potersi trovare nelle condizioni potenziali di distruggere la vita sulla Terra è nuovo, sovverte il rapporto con la natura, rendendo l’uomo padrone incondizionato del cosmo, pur con nuove responsabilità.


L'avvento del cosiddetto post umanesimo

Scrive uno scienziato, Jacques Monod: "Il vecchio patto e infranto: l’uomo finalmente sa di essere solo nell’immensità indifferente dell’Universo da cui e emerso per caso"[2]. In tale contesto si inserisce una nuova idea di salute e di malattia. Dopo anni di indiscutibili successi e conquiste, la Medicina si e arrogata un delirio di onnipotenza che, negando la finitudine e la morte, ha ingenerato sentimenti controversi, suscitando al contempo speranze, inquietudine e sgomento. In tale contesto si e sviluppata una nuova corrente di pensiero.

È il cosiddetto post umanesimo, un movimento nato nel mondo anglosassone e che lentamente e giunto sino a noi. Viene vagheggiata un’umanità senza più malattie, con un orologio biologico nel quale la morte e spostata molto avanti nel tempo, portando una linfa vitale nell’affrontare le fasi, come direbbe Dante, oltre la metà del cammino della vita.

Credo – sostiene Aldo Schiavone in Storia e destino[3] – che la generazione cui appartengo e quella dei suoi figli saranno fra le ultime con l’esperienza della morte, almeno nei termini in cui la nostra specie l’ha incontrata finora e credo che questa sarà per molti versi la conseguenza più sconvolgente della singolarità in cui stiamo entrando. L’idea che anche grazie ad una farmacologia in divenire si possa vivere bene anche nella terza o nella quarta età è ormai un concetto diffuso. Il rischio è quello di creare illusioni, un’eccessiva dipendenza dal farmaco, di medicalizzare l’esistenza, ma questo ormai e un punto di non ritorno. Stiamo assistendo ad una vera e propria rivoluzione, ad un ribaltamento del rapporto che abbiamo come umanità nei confronti delle situazioni di malattia.


L'esercizio di un controllo sull'evoluzione

Tutti i concetti base che utilizziamo per dare significato alla nostra vita saranno trasformati, morte compresa – afferma Raymond Kurzweil[4], uno dei padri del post umanesimo – e arriveremo a un punto dove le persone non avranno età. Non persone invecchiate, come quelle che hanno oggi novantacinque anni, bensì persone che rimangono giovani e non invecchiano. All’interno di tali coordinate vengono ridefinite le stesse nozioni di corpo, salute e malattia, rimettendo in discussione il loro presunto carattere “naturale” e osservando piuttosto le modalità storiche attraverso le quali il concetto di “natura” è stato culturalmente costruito sulla base di assunti ideologici considerati ovvii e non criticabili.

Salute, potenziamento dell’intelligenza e immortalità sono le principali mete da raggiungere secondo transumanesimo e postumano. I più recenti sviluppi della genetica, della nanotecnologia, della robotica, della neurofarmacologia, della bionica e delle scienze informatiche consentirebbero di creare un homo novus in grado di raggiungere perfezione, resistenza e stabilita psicofisica, esercitando nel contempo un controllo totale sull’evoluzione.

"La forza del postumano", ribadisce Francesca Ferrando[5], "e quella di appartenere sia all’individuo che alla specie. Nell’analizzare criticamente il passato e il presente, nell’individuare futuri possibili per le postumanità in divenire, il postumanesimo filosofico si presenta come un percorso alla scoperta del sé, riconosciuto in quanto alterità. Il suo apporto alla storia e alla visione planetaria è critico, necessario e al contempo rigenerativo: un’onda anomala nel pensiero occidentale". Tali nuove situazioni critiche sono bene evidenziate da Laura Palazzani[6], la quale solleva le ambivalenze emerse dal contesto odierno e per le quali non vi è inevitabilmente una univoca interpretazione.


Questioni etiche e deontologiche nella cura

È lecito usare farmaci e tecnologie per potenziare capacita fisiche, mentali ed emotive? È lecito estendere la vita biologicamente ad ogni costo fino all’immortalità terrena? È lecito impiantare protesi meccaniche nel cervello per migliorare la mente? È lecito costruire computer che imitano la mente e che la sostituiscono? È lecito costruire robot che interagiscono con umani e tra loro? Ogni atto medico, a prescindere dalla tipologia e dalla sua importanza intrinseca, può essere, in linea di principio, interpretato come “potenziamento”. Le tecno-scienze, la robotica, in generale la Medicina nelle sue espressioni più avanzate hanno palesato il problema del limite e dell’interazione natura-cultura che pone in essere, in modo tangibile, i benefici, ma purtroppo anche i rischi di tale prospettiva intrinseca.

La dicotomia bioetica tra mezzi ordinari e straordinari, nonché quella tra mezzi proporzionati e sproporzionati, emerge in tutta la sua dirompente attualità. Se la somministrazione di un farmaco è procedura ormai comune e consolidata, un intervento chirurgico eseguito con un robot, magari comandato a distanza, ingenera al contempo speranze ed inquietudini. Fugato il dubbio che migliorare le prestazioni psico-fisiche è un obiettivo che accompagna l’uomo sin dalle sue origini, così come ricorrere a strumenti per curare le malattie, la questione nuova con ricadute etiche e deontologiche è l’uso indiscriminato di tali mezzi.

L’antico adagio secondo cui “tutto ciò che si può fare deve essere fatto” ben si attaglia a tale contesto. Se, ad esempio, i farmaci non sono curativi, ma potenziano le prestazioni fisiologiche come nel doping, sollevano molteplici questioni in merito al loro uso, sia per gli effetti collaterali sulla salute, ma anche perché creano una questione etica di lealtà nelle competizioni sportive. Cosi come gli psicofarmaci. Se usati in mani esperte modulano i toni dell’umore, se abusati, alterano i sensi, il ritmo sonno-veglia, fanno perdere il senso di realtà e della misura, modificano in ultima istanza la personalità.


Il distacco tra medico e paziente

Lo stesso discorso può essere fatto per le biotecnologie. L’interazione tra la biologia, le tecnoscienze e l’informatica apre nuove prospettive di prevenzione, diagnosi e cura, tuttavia solleva diverse problematiche. Nelle malattie con deterioramento psico-fisico, quali la demenza senile e l’Alzheimer, l’uso esperto di un tablet può costituire uno strumento efficace ed efficiente per la stimolazione cognitiva. Analogo risultato può essere ottenuto ricorrendo a strumenti elettronici per uso pedagogico in età scolare. Tuttavia, specialmente tra i giovani, un uso eccessivo di tali mezzi sviluppa patologie e nuove dipendenze, induce a confondere il reale con il virtuale, provoca isolamento e non predispone ad una piena vita relazionale. Ciò che avrebbe potuto essere inteso come un potenziamento rischia di diventare un impoverimento modificando addirittura l’antropologia.

La medicina oggi, infatti, e “malata” perché si trova di fronte al nuovo pericoloso potere tecnico-scientifico. Stiamo assistendo infatti ad un’evoluzione della medicina che da arte puramente osservativa e descrittiva è divenuta scienza tecnologica, che fonda il suo sapere e i suoi progressi su nuove indagini diagnostiche, sulla biotecnologia, sull’uso dell’informatica, con l’obiettivo di raggiungere traguardi impensabili come l’eliminazione delle malattie e della vecchiaia. Tale sovraccarico tecnologico ha drammaticamente coinciso con un impoverimento antropologico, privando la Medicina della sua dimensione umana e solidaristica, e soprattutto provocando un progressivo distacco del medico dal paziente.



Persona e biotica, binomio indissolubile

Ora è impensabile ed anacronistico cercare di arrestare il corso della storia e degli eventi. Il progresso è come un treno in corsa che non si ferma di fronte a nulla, svincolato da regole morali e religiose, autoreferenziale, portatore di valori non negoziabili che hanno portato nella cultura dominante a ritenere che la scienza sia la depositaria della verità. In tale contesto un contributo significativo potrà essere portato dalla Bioetica, disciplina nata dall’esigenza di coniugare il bios con i valori, la scienza con le istanze indissolubilmente legate all’essere umano.

Ogni prospettiva bioetica, al di là dei principi condivisi di autonomia, di beneficialità, di giustizia, mutuati dall’etica medica, ha tuttavia le sue ragioni peculiari, i suoi fondamenti morali, la sua visione della vita e del mondo. L’obiettivo ultimo della bioetica, quando non è in grado di fornire risposte esaustive ai singoli problemi, è almeno quello di costituire una “cattedra del dialogo”, una piattaforma che mettendo a confronto la scienza, l’etica e la fede contribuisce in modo organico e critico a creare uno strumento funzionale e interdisciplinare per la ricerca della verità.

Persona e bioetica devono rappresentare un binomio inscindibile e costituire un dualismo dialogico e sinergico in grado di superare i pregiudizi, i particolarismi, i confini ideologici, culturali, religiosi e statuali. L’uomo, come affermava Kant, deve essere fine e non mezzo, deve rimanere il punto fermo, il valore assoluto al quale fare riferimento, la misura di tutte le cose, ora e sempre.



Non si allontani l'uomo dall'uomo

La bioetica deve rispondere principalmente a questi requisiti, svolgere un ruolo insostituibile di coscienza critica che richiami la società moderna alle sue responsabilità morali, ponendosi al servizio di un’umanità proiettata verso il futuro. Il postumanesimo e il transumanesimo che possono scientificamente concretizzarsi nella corrente scientifica del potenziamento rappresentano una sfida per il genere umano, un rito di passaggio

che molti interpretano come un’accelerazione inevitabile nell’evoluzione darwiniana della specie umana.

La questione è aperta. Le sfide non si possono ignorare, vanno però raccolte e vagliate alla luce del discernimento ben consapevoli che qualsiasi cambiamento non può e non deve frammentare la persona, ma ricondurre all’unita di corpo, mente e anima. Rinnegando la legge naturale e rifondando la società sul diritto positivo, supportato dalle tecnoscienze e sulla spinta di una cultura liberale e sul principio di autodeterminazione, si sollevano inevitabilmente questioni delicate ed insidiose, di non univoca interpretazione. Compito della bioetica, forse, partendo dall’ineludibile contesto odierno e dal dato reale, è formare le coscienze, recuperare la prospettiva di senso in grado di guidare con sapienza la locomotiva del progresso, modulandone però la velocita e la direzione.

Allontanare l’uomo dall’uomo, vagheggiando l’immortalità terrena non contribuisce a creare un mondo migliore ed un’umanità, seppur potenziata, più felice.


Note

[2] J. Monod, Il caso e la necessità, Mondadori, Milano 2001, 36.

[3] A. Schiavone, Storia e destino, Einaudi, Torino 2007, 46.

[4] R. Kurzweil, La singolarità è vicina, Apogeo, Milano 2013, 87.

[5] F. Ferrando, Il postumanesimo filosofico e le sue alterità, ETS, Pisa 2016, 58.

[6] L. Palazzani, Il Potenziamento umano, Giappichelli, Torino 2015, 77.




76 visualizzazioni0 commenti

Post recenti

Mostra tutti
bottom of page