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La morte del Grande Torino: i vissuti di una città sgomenta

Aggiornamento: 4 mag

di Michele Ruggiero


Alle 17.03 di settantacinque anni fa, il mito del Grande Torino diventava eterno. Di ritorno da Lisbona, dove avevano disputato una amichevole con il Benfica in onore dell’addio al calcio del capitano portoghese Ferreira, lo schianto contro la Basilica di Superga trasformava quei giocatori e quella squadra, da capitan Valentino Mazzola al più giovane, Rubens Fadini di 21 anni, in altrettanti eroi e non soltanto calcistici. [1] Il vuoto che essi lasciarono in Italia e nel mondo fu enorme. Da atleti erano diventati, infatti, i primi ambasciatori dell’Italia della Ricostruzione e del ritorno alla democrazia, dopo il Regime fascista e una sanguinosa guerra d’aggressione ad altri popoli. Presentiamo l'estratto dell'articolo che sarà pubblicato sul mensile "Torino Storia" in edicola dal 17 maggio.


L’aristocrazia del calcio”, come la definì nel suo titolo La Stampa di giorno dopo, lasciò la vita terrena alle 17,03 del 4 maggio 1949 sul terrapieno della collina di Superga. Come vissero i torinesi, la città intera quel dramma? Fu l’angoscia del “fulmineo diffondersi della notizia” che investì come un tornado la comunità torinese che di quel Grande Torino godeva quotidianamente la stretta vicinanza. Gli “Invincibili” li vedevi e chiedevi loro l’autografo in strada, li ammiravi dai gradoni dello stadio Filadelfia”, potevi incrociarli al bar “Vittoria” di Franco Ossola e Guglielmo Gabetto, magari tra una sfida a biliardo e l’altra. Non si può capire l’angoscia di una città, se non guardi nell’insieme i tempi e quel calcio d’altri tempi, che all’epoca, come avrebbe cantato Giorgio Gaber qualche decennio dopo, era soprattutto “libertà e partecipazione”, senza differenza di classe sociale.

[...] “Il crepuscolo durato tutto il giorno, una malinconia da morire. Ammutoliti gli entusiasti della domenica”: è l’incipit della Settimana Incom dell’11 maggio che offre agli italiani, a una settimana dallo schianto, le immagini quasi separate dalla immediatezza delle emozioni, da quella corale salita in pellegrinaggio di migliaia di persone a Superga, in auto­mobile, in bicicletta, a piedi. Uno sciame umano addolorato che gira come su sé stesso sul piazzale della Basilica.

Poche ore prima, a mezzogiorno di quella infausta giornata, “un tenuissimo raggio di sole [squarciava] le nubi, raccontava il cronista de La Stampa:

[…] Fu un attimo soltanto, una schiarita improvvisa, poi la coltre spessa delle nubi si richiuse sulla città. E il tempo cominciò a scorrere lento, uniforme, fra lo scrosciare della pioggia che era ripresa a cadere con insistenza. Torino sembrava avvolta da un’ombra di melanconia. Quasi un presagio...

Torino non sa dove guardare per arrestare lo sconcerto, è come paralizzata. Scrive l’Unità, il giornale fondato da Antonio Gramsci: “Il dolore troppo grande, è il dolore di Torino, è il dolore dell’Italia. Sono morti i nostri amici, tutti insieme. Non li vedremo più. Lo stadio per noi sarà vuoto, triste come un cimitero”. E c’è chi si spinge fino alle sedi dei giornali con le copie rivoltate sulle pagine dell’ultima cronaca da Lisbona, con i resoconti dei tre giornalisti che viaggiavano insieme con la squadra e i tecnici: sono Renato Casalbore, 58 anni, fondatore e direttore di Tuttosport, Luigi, Gino per tutti, Cavallero, 42 anni, capo dei servizi sportivi della Stampa e Renato Tosatti, 40 anni, della Gazzetta del Popolo.

La veglia. "I trentun feretri nella camera ardente. Due stanze squallide, sporche, con i muri rosi dall’umidità, accolsero nella notte i poveri resti dei giocatori, dei dirigenti, dei giornalisti e dell'equipaggio periti nella catastrofe di Superga. Sin dalle prime ore del mattino, lungo tutto il viale di corso Novara prospiciente il muro del Cimitero si aggrupparono uomini e donne giunti da ogni parte della città - a piedi, in bicicletta, in tram - e restarono immobili per ore e ore, il volto teso da un’angoscia profonda, gli occhi fissi sul cancello”. Le cronache della veglia aumentano i decibel del dolore.

Il Grande Torino non calcherà più la scena calcistica, ma è campione d’Italia per il quinto anno consecutivo. Davanti alle bare, l’annuncia il presidente della Federcalcio, l’ingegnere Ottorino Barassi. In punta di piedi, quasi a voler dare più corpo alla sua voce e a raggiungere chi non c’è più dice: “Vi proclamo campioni d’Italia. Vi consegno questa Coppa. Vedete quanto è grande. C’è dentro il cuore di tutta l’Italia, di tutto il mondo”.


Note


Le 31 vittime.

Giocatori: Valerio Bacigalupo, Aldo e Dino Ballarin, Emile Bongiorni, Eusebio Castigliano, Rubens Fadini, Guglielmo Gabetto, Ruggero Grava, Giuseppe Grezar, Ezio Loik, Virgilio Maroso, Danilo Martelli, Valentino Mazzola, Romeo Menti, Piero Operto, Franco Ossola, Mario Rigamonti e Julius Schubert. 

Dirigenti: Egidio (detto Arnaldo) Agnisetta, Ippolito Civalleri, Andrea Bonaiuti.

Allenatori: Egri ErbsteinLeslie Lievesley,); Ottavio Cortina (massaggiatore),

Equipaggio: Pierluigi Meroni, Cesare Bianciardi,  Celeste D'Incà (motorista), Antonio Pangrazzi (radiotelegrafista).

 

 

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