"L'urlo" pro-Palestina, pensieri di un vecchio sindacalista
- Savino Pezzotta
- 3 ott
- Tempo di lettura: 3 min
di Savino Pezzotta*

Di fronte al tentativo di alcuni giornali italiani di sminuire la valenza sociale dello sciopero pro-Palestina e dell’iniziativa della flottiglia — mentre altri, al contrario, ne esaltano eccessivamente il significato —, provo a offrirne una mia interpretazione. Lo faccio recuperando alcune intuizioni di Michel de Certeau, gesuita francese che seppe leggere con grande acutezza le mobilitazioni del 1968, e sulla base della mia lunga esperienza di sindacalista nella CISL.
Ho visto e interpretato lo sciopero generale e la navigazione della flottiglia come un evento che rompe il silenzio e l’indifferenza. Ora tutti sono obbligati a parlare e a scrivere delle ragioni che hanno provocato questi atti — che li si condivida o li si critichi —: la condizione nella quale il governo israeliano ha costretto il popolo palestinese. Lo sciopero e l’azione della flottiglia hanno prodotto una nuova rappresentazione della realtà, costringendo l’opinione pubblica a prendere atto della tragedia palestinese.
È certamente una buona notizia che Hamas abbia accettato il piano di pace statunitense. Cessare i bombardamenti, liberare gli ostaggi, non avere altri morti è una buona notizia che va oltre le questioni politiche. Tuttavia, avere a cuore il destino di un popolo martoriato significa anche riconoscere la sua sofferenza concreta: i morti, i feriti, i mutilati, le case distrutte, gli sfollati senza rifugio, i servizi sanitari devastati, la mancanza di pane e di acqua, l’incertezza del domani.
Bisogna però essere onesti: sappiamo per esperienza che le manifestazioni, gli scioperi e perfino le azioni nonviolente — come quella della flottiglia — non possono essere valutati sui risultati immediati, ma sulla loro potenzialità generativa. Queste iniziative mostrano che la storia cambia quando parole e gesti prima ignorati, marginalizzati o normalizzati diventano conoscenza pubblica, introducendo verità e speranza.
Sono atti politici che nascono al di fuori della politica istituzionalizzata, delle sue regole e del suo conformismo. Ci troviamo davanti ad azioni che mutano la narrazione collettiva e contribuiscono alla formazione di un linguaggio condiviso, capace di incrinare i racconti normalizzatori e di spingere a interrogarsi, reinterpretare codici e istituzioni. Mostrano che la società può reinventarsi dal basso. Non c’è la produzione di programmi o progetti politici stabili: aprono spazi di libertà e di desiderio, alimentando una memoria delle possibilità che può orientare i nostri passi in questi tempi difficili.
Scendere in piazza, manifestare, navigare contro un blocco, scioperare — come anche pregare insieme, indicando obiettivi e desideri comuni — aiuta a far crescere una visione simbolica e una consapevolezza collettiva, rompendo il silenzio e le narrazioni dominanti.
Quelle di questi giorni sono state grandi manifestazioni nonviolente. I pochi episodi di estremismo violento e irresponsabile non ne inficiano la sostanza: nel loro concreto svolgersi, queste manifestazioni hanno respinto ogni ricorso alla violenza.
Non possiamo giudicarle soltanto dai risultati immediati: ciò che conta è la loro forza generativa, la capacità di far emergere un sentire scomodo ma vivo nella nostra società, che — nonostante difficoltà e condizionamenti — continua ad aspirare alla libertà e a credere nella solidarietà.
Sono convinto che la storia e le società non cambino dall’alto con atti di Governo, né attraverso l’uso strumentale dei mezzi di comunicazione o il potere pervasivo delle nuove tecnologie e dell’intelligenza artificiale, ma quando la parola nascosta nel seno della società emerge, si manifesta e diventa gesto pubblico e coscienza responsabile e personale.
Va sottolineato che erano presenti molti giovani e tante persone comuni, forse alla loro prima esperienza di partecipazione ad una iniziativa indetta da un sindacato. Con la loro presenza hanno incrinato la pervasività del linguaggio conformista di politici, dei media e dei social, scegliendo di parlare con la propria voce. Non siamo di fronte a un programma politico definito, ma a un moto di indignazione che si è trasformato in un atto di libertà, nel desiderio di esprimersi, di essere ascoltati, di affermare con la propria presenza: «Noi ci siamo».
La mia lunga esperienza di militante e dirigente sindacale mi dice che probabilmente seguirà un processo di normalizzazione. Tuttavia, resto convinto che rimarrà un segno profondo: la scoperta che scendere in piazza, scioperare o navigare per gli altri, per chi non può farlo, e non solo per sé stessi, può aprire spazi nuovi per tutti.
Unico rammarico: l’assenza del mio sindacato, la CISL.
*Si ringrazia l'autore per avere concesso alla Porta di Vetro la pubblicazione del suo articolo.













































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