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L'opposizione è a un bivio per riportare la libertà in Iran

  • Vice
  • 14 giu
  • Tempo di lettura: 3 min

Aggiornamento: 15 giu

di Vice


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"Il popolo iraniano: intrappolato tra guerra e tirannia": è il titolo di un articolo pubblicato su Tehran Magazine,[1] il settimanale di lingua persiana che si stampa in California dal 1996, fondato da Shahbod Noori, che ne è amministratore delegato ed editorialista. Nel suo insieme, l'articolo fotografa perfettamente la condizione esistenziale in cui vivono da 46 anni milioni di iraniani che periodicamente lottano per liberarsi del regime clericale degli ayatollah. E per questo sono mandati sulla forca in un crescendo impressionante: dalle 314 esecuzioni nel 2021 alle 576 l'anno dopo, alle 823 nel 2023 fino alle 901 lo scorso anno. Il che realizza, come è stato ripetutamente rilevato, una stretta correlazione tra repressione ed emigrazione: 150 mila persone ogni anno, la fuga di cervelli più numerosa del mondo.

Gli iraniani contestano da decenni a viso aperto il regime degli ayatollah. Superata la sanguinosa guerra degli anni Ottanta (1980-1988) - mezzo milione di morti da una parte e dall'altra - contro l'Iraq di Saddam Hussein, in cui intervenne a favore dell'Iran anche Israele, che bombardò un importante impianto nucleare iracheno (paradossi della storia), masse critiche sono scese in piazza dal 1999 a più riprese. Ultime le grandi proteste, che dal 16 settembre del 2022 fino ai primi mesi dell'anno dopo, dilagarono a Teheran e in altre importanti città dell'Iran: manifestazioni guidate da donne, studenti ed operai per la morte di Mahsa Amini, la ventiduenne curda di Saqqez, uccisa nella capitale Teheran dalla polizia morale per avere male indossato l'hijab.

Fu una rivolta che il New York Times definì tra le più imponenti dal 2009, nel cui grembo crebbe di giorno in giorno la speranza di mettere in ginocchio il regime, isolato a livello internazionale e nel Paese, ma che la guida suprema Ali Khamenei addebitò alle potenze straniere, fomentatrici dell'origine dei disordini e dei movimenti di protesta che si estesero anche alle carceri.

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Da quel 16 settembre, mentre in patria centinaia di persone morivano sotto la repressione delle forze di polizia e dei Guardiani della rivoluzione, l'opposizione iraniana in esilio cercava di costruire una piattaforma unitaria dichiaratamente alternativa alla Repubblica islamica. Uno sforzo, carico di sacrificio di sangue che si è scontrato per l'ennesima volta con la capacità di rigenerazione che il regime continua a mostrare dal 1979, cioè dalla presa del potere del gruppo religioso guidato dall'ayatollah Khomeini, che dopo la fuga dall'Iran dello Scià Mohammad Reza Pahlavi mise fuori gioco le forze laiche.

Così oggi, come scrive Shahbod Noori, "ancora una volta, il popolo iraniano sopporta il costo di politiche sconsiderate che non ha mai sostenuto". Una politica scissa tra la protezione delle élite del Paese e i cittadini costretti "a vivere nella paura, non solo per le bombe straniere, ma anche per la repressione interna".

C'è una via d'uscita? Il paese può essere salvato dalla morsa della Repubblica islamica?, sono le domande che si ripropongono tra i gruppi d'opposizione, consapevoli che il sistema di potere degli ayatollah mostra crepe politiche sempre più visibili e denuncia una vulnerabilità sul piano militare resa concreta dall'intelligence israeliana.

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I recenti attacchi di Tel Aviv, commenta Shahbod Noori, "segnano più di un'escalation militare: sono un riflesso del decadimento e del pericolo della Repubblica islamica". Ma restano, e non si tratta di un elemento secondario, anche un tentativo di sopraffazione dall'esterno alla sovranità di un popolo, un attentato all'amore di patria, attraverso cui il regime potrebbe costruire un argine ideologico, nazionalistico oltre che religioso, denunciando l'aggressione di Israele, l'ingerenza di Netanyahu e dell'Occidente negli affari interni del Paese.

Né si possono trasformare in un prezioso "alleato" le dichiarazioni di entusiasmo per i bombardamenti su Teheran profuse da Yasmine Etemad-Amini, moglie del pretendente al trono di Persia, Reza Pahlavi. Immaginare un'opposizione che tiri la volata all'erede della dinastia del Pavone è quantomeno autolesionistico. Quanti in Iran sarebbero disposti a dimenticare la repressione sistematica operata della polizia segreta, la famigerata Savak (Organizzazione per l'Informazione e la Sicurezza dello Stato) istituita dallo Scià Reza Pahlavi (foto a in alto) nel 1957, che agì sugli oppositori con spietata crudeltà fino al 1979? Più che Netanyahu, che non è meno criminale perché oggi attacca un regime dispotico, può e deve la protesta del popolo iraniano per ribaltare il sistema.


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