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L'Iran democratico non si arrende

Aggiornamento: 9 gen 2023

di Yoosef Lesani

La rivolta nazionale iraniana è alla soglia del suo quinto mese. Una continuità che non cede, sebbene il regime degli ayatollah eserciti una dura repressione per fermarla. Ma l’argine delle forze di sicurezza e gli appelli rivolti al popolo è stato quotidianamente valicato da milioni di persone che non accettano più una dittatura clericale che dura dal 1979, dalla presa del potere di Khomeini. I manifestanti chiedono il rovescio totale della feroce e misogina autorità clericale, con 43 anni di devastante e perpetua violazione dei fondamentali diritti umani e negazione della liberà, discriminazione femminile, esecuzioni, ampia corruzione dello stato, economia distrutta, inflazione a volte al 100% e profonda crisi occupazionale, che ha portato il 75 per cento della popolazione sotto la soglia della povertà.

Incapace di confrontarsi con la protesta democratica che marcia nelle strade dell’Iran, la dittatura fa largo uso del terrore e della violenza in qualunque angolo del Paese. Finora, la polizia di regime ha ucciso oltre 750 manifestanti (i nomi di circa 627 di loro pubblicati dall’Organizzazione dei Mojahedin del Popolo Iraniano - MEK), tra cui settanta minorenni di età compresa tra 8 e 18 anni e più di 30.000 arrestati e sottoposti a torture e abusi sessuali. La disumanità si racconta nei video diffusi clandestinamente e a rischio della propria vita dai manifestanti che subiscono le aggressioni da parte della Gasht-e-Ershad, la famigerata polizia morale, responsabile della morte dalla giovane curda Mahsa Amini, da cui è partita nel settembre scorso la protesta dilagata nell’intero paese. sono partite nel settembre scorso, e dalla stessa Repubblica islamica che ha diffuso nel dicembre scorso le foto dell’impiccagione (foto in basso) del ventitreenne Majidreda Rahnavard accusato di aver accoltellato due miliziani nello scorso 26 novembre, e condannato per crimini di “odio contro Dio”.

Fonte: Agenzia Dire, www.dire.it

Nei giorni scorsi, il lugubre rituale delle impiccagioni (almeno una dozzina negli ultimi mesi) è ripreso con l’esecuzione di altri due giovani, Mohammad Mahdi Karami e Seyed Mohammad Hosseini, giudicati colpevoli di aver ucciso il 3 novembre scorso a Karaj, città a una ventina di chilometri da Teheran, Ruhollah Ajamian, un membro della forza Basij volontaria della Guardia rivoluzionaria iraniana. Il processo è stato definito da Amnesty International una “farsa”. Ad oggi, almeno un centinaio di manifestanti sono sotto processo e rischiano la pena capitale.

L’Iran democratico chiede di non essere lasciato solo. E tra sabato e domenica in tutto il mondosi sono svolte manifestazioni nel terzo anniversario dell’abbattimento dell’aereo ucraino PS752 con 176 passeggeri a bordo, abbattuto dai missili dalle Guardie Rivoluzionarie. Ma le prese di posizione non sono sufficienti. A quella e ad altre stragi il regime autocratico mostra indifferenza, soffoca brutalmente ogni espressione di dissenso. Espressione di questo comportamento è la guida suprema del regime, Ali Khamenei, e dietro di lui gli alti esponenti della Repubblica islamica continuano ad affermare che i manifestanti sono giovani presi da sentimenti anarchici, ignoranti, parte di loro legati agli ipocriti (la Resistenza Iraniana), che meritano dunque la pena di morte.

Gli ayatollah sono comunque in una situazione di stallo, perché si ritrovano tra due punti estremi: 1) fare delle seppur piccole concessioni, significherebbe aprire il campo ad altre richieste dei manifestanti, che potrebbero sfociare nella maggiore e totale libertà, ma non farle equivarrebbe a giustificare la prosecuzione delle manifestazioni di una protesta ancora più intensa; 2) deve sbarazzarsi a qualsiasi costo dal movimento della resistenza iraniana e del Consiglio della Resistenza Iraniana (CNRI) con la sua principale forza motrice, i Mojahedin del Popolo (MEK) che oggi con le sue Unità della Resistenza composto dai giovani determinati a organizzare gran parte della rivolta nazionale.



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