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L'inutile offesa alla bielorussa Aryna Sabalenka

Aggiornamento: 7 giu 2023

di Vice

Non c'è pace sulla terra rossa per la "tigre di Minsk", al secolo per Aryna Sabalenka, 25 anni, tennista dal fisico statuario, eppure delicato, tratti somatici orgogliosi e teneri a un tempo, numero due della classifica Wta alle spalle della polacca Iga Świątek. A lei, la stretta di mano viene puntualmente negata dalle sue avversarie ucraine. Ieri, è accaduto a Parigi, nel tempio del Roland Garros da Elina Svitolina, una "pasionaria" intransigente che non teme di scivolare nel fanatismo con le sue dichiarazioni pre e post partita. Oramai per Aryna è un classico, un modo di accusarla d'essere bielorussa, anche se vive a Miami, al di là di qualunque responsabilità diretta nella politica del suo Paese, destinato a perpetuarsi o riproporsi sotto forme diverse anche a guerra finita perché l'accumulazione del livore non scompare a comando. Ieri a Parigi, ieri l'altro a Roma, agli Internazionali, quando l'ucraina Marta Kostyuk, una delle tenniste che con maggior vigore sostiene l'esclusione di russi e bielorussi dai tornei, le ha negato il saluto al termine dell'incontro perduto. Aryna se l'aspettava. Poche ore prima avere dichiarato: "Quelli che all'inizio della guerra ci odiavano per il nostro Paese e per le nostre origini, ci odiano ancora. Non è cambiato molto".

Odio diffuso: attenzione al precedente di Monica Seles

Comprendiamo l'amarezza di Aryna Sabalenka. Il clima attorno a lei, non appena il tabellone la mette di fronte ai colori giallo-azzurri, esce fuori dal perimetro di gioco: gli scambi da fondo campo sono letti come colpi pesanti di artiglieria, le volée s'immaginano missili ipersonici, le smorzate planano come droni, creatività e inventiva tennistiche, non più esaltate come virtù agonistiche e talentuose, diventano umiliazione dell'avversaria per vivificare un odio senza ritorno che non deve risparmiare nessuno. Proprio nessuno, secondo l'ordine di scuderia.

Aryna subisce. Piange, quando scopre che le si attribuiscono parole mai pronunciate. Nulla di nuovo sotto il sole: i professionisti della provocazione non conoscono la cassa integrazione. Allora, evita le conferenze stampa e paga le multe che seguono per inadempienza contrattuale. Nella rete, non sotto rete come sarebbe più a suo agio, rimbalza la frase di un giornalista polacco che con spropositata durezza gli ricorda alcune foto insieme con Putin e l'avverte che "internet non dimentica". Avvertimento da brivido che riporta l'almanacco del tennis al 1993, a Monica Seles, tennista serba con passaporto americano, pugnalata da un uomo disturbato mentalmente, morto di recente a fine aprile scorso, che tra le giustificazioni dell'aggressione aveva detto di "odiare i serbi". L'oblio della memoria e delle sue conseguenze letali e pericolose non ha confini. Ma lei, Aryna, prova a spiegare che si giocava la Fed Cup fra Russia e Ucraina, e Putin arrivò per complimentarsi con le atlete. Colpevole, lei, di educazione? Per chi l'accusa, forse. Della guerra parla come un abominio dell'umanità e si schiera contro e di riflesso anche contro il presidente-dittator Lukashenko.


Dalla banalità del male alla normalità dell'odio

Dichiarazioni che scivolano nell'indifferenza generale e nell'appiattimento culturale che sovrasta la lettura della guerra tra Russia e Ucraina, schiacciata sui pensieri a senso unico, mai moderati, del presidente ucraino Zelensky che muove odio con la stessa intensità delle pale di un ventilatore, indifferente alla scia di veleni che le parole tracceranno nella mente e nel cuore delle prossime generazioni. Il passo dalla banalità del male alla normalità dell'odio è breve. Normale e non un caso isolato, dunque, che Elina Svitolina, dopo la sua connazionale Marta Kostyuk, ostenti il rigetto del fair play sportivo verso la Sabalenka, fino a domandarsi "onestamente non capisco cosa stesse aspettando...". E se lo chiede ancora, Elina Svitolina? I ponti che lo sport getta sui campi di gioco, sulle corsie di atletica, nelle vasche delle piscine, sul tatami, sul ring, non restano forse una delle forme più praticabili che azzera o quasi l'incomunicabilità? Immagina ancora che la mortificazione del gesto sportivo verso Aryna Sabalenka possa isolare la politica aggressiva e disumana del Cremlino? E se fosse il contrario, come sono in tanti a pensare e a sperare, se fosse proprio l'esperanto dello sport e tra lo sport, la sua lingua universale, la chiave di volta per riconquistare spazi di distensione: lo sport come grande ambasciatore di pace nello spirito degli antichi giochi olimpici? Utopia?

Sì. Ma necessaria. Almeno per cercare una via d'uscita all'umanità e riportare sui binari del dialogo e della distensione i Potenti della Terra che hanno deciso di trasformare la competizione economica in duro ed esasperato confronto militare, esattamente come accadde più di un secolo fa con lo scoppio della Prima guerra mondiale. Una follia, ne siamo più o meno tutti consapevoli, che ci avvicina a grandi falcate alla catastrofe. Inevitabile, quanto annunciata, se non si rallenta immediatamente quell'insano confronto. Se chi comanda, con la licenza di una democrazia sempre meno applicata, non si libererà della funesta idea che gli Stati sono chiamati oggi a lottare per la sopravvivenza, anziché promuovere la ricerca di una coesistenza pacifica nell'interesse dei popoli, tutti, indistintamente, non ci sarà futuro, neppure prossimo.



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