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Stefano Marengo

L'Editoriale della domenica. L'ombra pesante di Netanyahu sulla Cisgiordania

di Stefano Marengo


Da diverse settimane il conteggio dei morti a Gaza è fermo alla soglia dei 40mila decessi. In realtà le vittime dei bombardamenti israeliani sono molte di più, ma ormai mancano personale e strutture sanitarie capaci di censirle adeguatamente: stando ai dati forniti da Euro-Med, sono quasi 1.200 i medici e gli infermieri rimasti uccisi o feriti tra il 7 ottobre e il 12 luglio, mentre 32 ospedali e 110 ambulatori sono stati totalmente o parzialmente distrutti. La stessa organizzazione umanitaria stima prudenzialmente che i morti di Gaza siano oggi circa 47mila (88mila sarebbero invece i feriti).


The Lancet: 186 mila vittime a Gaza

Ma anche in questo caso si tratta di un dato parziale, che considera soltanto le vittime dirette delle bombe israeliane e non tiene conto dei decessi dovuti a cause indirette, come la fame e le malattie per mancanza di viveri e la distruzione delle infrastrutture sanitarie, idriche e fognarie. Nei giorni scorsi, ad esempio, le Nazioni Unite hanno diffuso la notizia che nell’acqua di Gaza è stato trovato il virus della polio.[1] In questo quadro disastroso, un articolo pubblicato il 5 luglio sulla prestigiosa rivista medica The Lancet ha stimato che le vittime reali della guerra su Gaza siano almeno 186mila (e si tratta, anche in questo caso, di un’ipotesi prudenziale).[2]

Di fronte a questi numeri è ormai sempre più evidente, anche all’interno della comunità degli studiosi, l’intento genocida perseguito da Israele: l’ultimo a denunciarlo apertamente, in ordine di tempo, è stato Amos Goldberg, docente all’Università ebraica di Gerusalemme di cui in questi giorni si può leggere una significativa intervista pubblicata da Jacobin Italia.[3]

Mentre si è giustamente concentrati sugli orrori in atto a Gaza, non si dovrebbe commettere l’errore di perdere di vista ciò che accade nel resto della Palestina. È anzi proprio sulla Cisgiordania e su Gerusalemme Est che si concentrano le vere mire politiche del governo Netanyahu. Da mesi il ministro delle finanze di Israele, il colono di estrema destra Bezalel Smotrich, ha annunciato il progetto di confisca di 800 ettari di territorio cisgiordano, in quello che sarebbe il più grande furto di terra palestinese degli ultimi trent’anni. A questo programma annessionistico fa riscontro la crescita esponenziale degli episodi di violenza che vedono protagonisti i coloni, che ormai quotidianamente, in più luoghi della Cisgiordania e con il supporto dell’esercito, tentano di cacciare i palestinesi dalle loro case, provocando decine di morti e feriti.

Gli effetti della resistenza palestinese

Qualora la situazione non fosse ancora sufficientemente chiara, nei giorni scorsi la Knesset (il parlamento israeliano) ha deciso di togliere ogni dubbio approvando, con il voto favorevole della maggioranza di governo, ma anche dell’opposizione di destra e dei centristi di Benny Gantz, una risoluzione che sancisce una “opposizione di principio” alla creazione di uno stato palestinese. A complemento di tutto ciò, in una tragica farsa alla Ariel Sharon, c’è poi stata l’ennesima passeggiata provocatoria di Itamar Ben-Gvir sulla spianata delle moschee. Il ministro di estrema destra, scortato da un ampio apparato di sicurezza, ha addirittura preteso di pregare di fronte alla moschea al-Aqsa, luogo sacro per i musulmani, ma soprattutto simbolo nazionale palestinese.

La sicurezza di sé di cui fa mostra la classe dirigente israeliana è tuttavia solo apparente. Infatti, nonostante rimanga incondizionato il sostegno dei governi occidentali (e dei loro apparati mediatici), a Tel Aviv sanno bene che la situazione politica e militare sta diventando ogni giorno più problematica. Dopo nove mesi di bombardamenti sistematici, l'Idf non solo non ha sconfitto Hamas, ma non esercita alcun reale controllo su nessuna porzione della Striscia di Gaza. Nei giorni scorsi, inoltre, il quotidiano Yediot Ahronoth ha reso noto che l’esercito israeliano è a corto di mezzi corazzati, avendo perso nelle operazioni militari circa 500 carri armati. Si tratta di una dimostrazione evidente che la guerriglia intrapresa dalla resistenza palestinese si sta dimostrando più che efficace nel contrastare il nemico.

Così come è efficace la guerra d’attrito condotta sul confine settentrionale da Hezbollah, che oggi è in grado di tenere sotto scacco la Galilea, le Alture del Golan e una città strategicamente fondamentale come Haifa. A sud, invece, il blocco del Mar Rosso garantito dagli Houthi dello Yemen ha provocato il fallimento del porto di Eilat. Alcuni giorni fa, inoltre, gli stessi Houthi sono stati in grado di superare il sofisticato sistema di difesa di Iron Dome e attaccare con un drone il centro di Tel Aviv. È un successo, quest’ultimo, che non va valutato con criteri puramente militari, ma in base ai suoi effetti psicologici: il fatto stesso che l’Asse della resistenza abbia colpito la città più importante e meglio difesa di Israele non può che indurre un clima di generale insicurezza che, per il governo Netanyahu, si traduce in ulteriore indebolimento politico. Ieri, 20 luglio, l'IDf ha reagito agli attacchi Houthi con un raid sulla città portuale di Hodeida che ha provocato, secondo i ribelli yemeniti, 3 morti e 87 feriti.


La pronuncia della Corte internazionale di giustizia

Al di là della situazione sul campo, tuttavia, l’ultima settimana ha visto una pronuncia della Corte internazionale di giustizia che costituisce una vera e propria pietra miliare, in termini di diritto internazionale, per la questione palestinese. Venerdì 19 luglio, nonostante le pressioni americane per un rinvio, il Tribunale dell’Aja ha risposto a una richiesta di parere formulata nel 2022 dall’Assemblea Generale dell’ONU circa la legalità dell’occupazione israeliana dei territori palestinesi. Non si è trattato quindi di una pronuncia dovuta alle drammatiche contingenze di questi mesi, e ciò le conferisce un valore giuridico, ma anche storico e politico, di più ampio respiro.

I giudici hanno così stabilito senza ambiguità che l’occupazione israeliana di Cisgiordania, Gerusalemme Est e Striscia di Gaza è illegale per il diritto internazionale e deve essere smantellata il più rapidamente possibile. Parimenti illegali sono gli insediamenti coloniali, che devono a loro volta essere evacuati e dismessi. Israele, inoltre, deve consentire il ritorno dei profughi palestinesi e fornire adeguate riparazioni per i danni arrecati dall’occupazione militare alle persone e al territorio. I giudici hanno poi evidenziato come esistano ormai sufficienti evidenze per concludere che il regime imposto da Israele al popolo palestinese sia qualificabile come segregazione razziale e apartheid. Il Tribunale, infine, ha raccomandato alle Nazioni Unite e ai paesi membri di non riconoscere come legale lo status quo di occupazione, di non fornire a Israele aiuti o assistenza che ne favorirebbero il mantenimento e di valutare, in sede di Assemblea Generale e di Consiglio di Sicurezza, l’adozione delle misure più efficaci per porre fine alla “presenza illegale dello Stato di Israele nei territori palestinesi”.

La Corte dell’Aja, è superfluo ribadirlo, non dispone di strumenti per rendere esecutive le proprie pronunce. Tale incombenza spetterebbe alle Nazioni Unite, che tuttavia, come è facilmente prevedibile, saranno messe nella condizione di non agire dai veti statunitensi, mentre Israele, come ha fatto in molteplici occasioni in passato, semplicemente ignorerà i propri obblighi nei confronti del diritto internazionale. Non è tuttavia sul breve periodo e per le loro immediate ricadute materiali che vanno valutati gli effetti politici della pronuncia della Corte internazionale. La sua importanza sta nell’essere la più autorevole e insieme più chiara, organica e radicale smentita della narrazione ideologica israeliana (e occidentale) che da oltre mezzo secolo sostiene un brutale regime di occupazione militare, apartheid e pulizia etnica. Questo aspetto, unito agli sforzi della resistenza palestinese sul campo, di più intellettuali ebrei e alla mobilitazione internazionale per la liberazione della Palestina, farà sicuramente la differenza a lungo termine. Ma proprio per questo è oggi tanto più urgente, mentre sono in corso colloqui tra Fatah e Hamas, che i partiti palestinesi trovino un accordo politico che conduca alla creazione di un fronte unitario per contrastare la politica di Netanyahu, una nuova OLP capace di organizzare con la massima efficacia il percorso di liberazione nazionale.


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