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Amore rinato tra Italia e Turchia I droni torinesi sul Kurdistan

di Stefano Garzaro


Alle 14 di oggi, lunedì 12 maggio, numerose associazioni pacifiste e movimenti antagonisti danno vita a un presidio davanti a Palazzo Ceriana Mayneri, in corso Stati Uniti 27, a Torino, in concomitanza del Business Forum Turchia, organizzato tra gli altri dalla Regione Piemonte, dalla Camera di Commercio subalpina e dal Consolato generale di Turchia a Milano, allo scopo di incentivare gli scambi tra aziende piemontesi e turche, in particolare nei settori logistico e bellico.[1]

Le associazioni pacifiste riunite nel presidio “Dal Kurdistan a Torino resistiamo alla guerra”, puntano il dito sulle finalità militari del Forum. Il presidio prevede interventi politici, informazione da canali indipendenti, musica, contributi artistici.

Sui rapporti tra Italia e Turchia - che ospiterà giovedì prossimo un incontro tra Russia e Ucraina alla ricerca della pace - e sulla situazione politica che si è radicalizzata in quella che era denominata ufficialmente Repubblica turca, l'intervento di Stefano Garzaro.


Non sono passati molti anni da quando l’orgoglio democratico europeo teneva a distanza la Turchia e le sue richieste di entrare nell’Unione Europea: mancava ogni volta un certificato di vaccinazione contro la tirannia, un bollo sul rispetto dei diritti civili, un tagliando di scuse sui genocidi delle minoranze armena e curda.

Oggi, con i fantasmi che si aggirano dall’Ucraina alla Siria, alla Palestina, l’immagine della Turchia ago della bilancia, equilibrio fra i continenti, si è insinuata nei media occidentali, soprattutto in quelli più rispondenti agli stimoli governativi. Al punto che la formalità di un ingresso turco nella bandiera stellata dell’Unione non pare più così urgente nemmeno allo stesso Erdoǧan. In fondo, grazie all’elezione di Trump e alla frenesia di guerra che avvolge Strasburgo e Bruxelles, Erdoǧan consolida senza fatica quel ruolo di negoziatore che si è attribuito da sé, ma soprattutto moltiplica gli accordi commerciali con le imprese europee in campo militare: un successo doppio da sventolare in casa e fuori.


Gli accordi commerciali siglati tra Meloni e  Erdoǧan

Chi ha perso il treno negoziale fra Oriente e Occidente è l’arrugginita diplomazia italiana, non sufficientemente sostenuta dalla politica del proprio governo, esclusa dai summit che più contano. L’affanno italiano per riagganciare Erdoǧan ha avuto però un premio di consolazione imprevisto: ecco infatti che, morto un papa, Roma vede sbarcare miracolosamente gli ospiti turchi in piazza San Pietro. Un funerale è sempre un’ottima occasione per combinare matrimoni e transazioni, e così il 26 aprile la presidente Meloni ha poggiato una mano sulla spalla a Erdoǧan convincendolo a sedersi a un tavolino con la tovaglia a quadretti, di quelle che favoriscono le confidenze.

L’incontro più professionale in verità è avvenuto tre giorni più tardi all’hotel romano Parco dei Principi (luogo storicamente dedicato ad incontri di guerra con la partecipazione di esponenti di destra) durante il Forum imprenditoriale Italia-Turchia organizzato dal Ministero degli Affari esteri italiano e dai Ministeri turchi del Commercio e degli Esteri, con la collaborazione dell’Agenzia Ice per la promozione italiana all’estero e dell’omologa turca Deik. Il 29 aprile, al mattino, incontro fra tecnici a porte chiuse; il pomeriggio, apparizione pubblica di Giorgia Meloni e di Recep Tayyip Erdoǧan. Un rapporto fraterno, tant’è che l’ambasciatrice turca a Roma, Elif Comoglu Ulgen, ha concesso agli italiani le parole che avrebbero amato sentirsi dire, definendo il summit «un nuovo capitolo nelle relazioni bilaterali tra Italia e Turchia», paesi che «condividono la stessa area geografica. L'idea che l'Italia ha del Mediterraneo – ha rimarcato Ulgen – ci spinge a valutare le politiche che potrebbero portare vantaggi a entrambi. Un esempio è l'Africa, ma anche i Balcani e il Medio Oriente, ma soprattutto l'asse Euro-Atlantico. […] Abbiamo sinergie emergenti, specialmente nell’ambito della difesa».

Ecco il punto. Il summit romano non ha prodotto soltanto fraterni e amichevoli annunci e dichiarazioni di amicizia, ma anche un corposo accordo militare tra Leonardo e la turca Baykar: parliamo di droni, non più soltanto di auto, farmaci, tessili, cybersecurity, oppure degli elettrodomestici Beko sempre più amati dagli italiani. È un’ulteriore accelerazione degli scambi commerciali Italia-Turchia già eccellenti nel settore privato, saliti dai 10 miliardi di dollari del 2019 ai 32,2 miliardi del 2024.

Il rilancio dell’industria militare turca scuote e spinge quella italiana, che si prepara a scalare nuove vette non più soltanto grazie ai fucili da caccia e alle pistole da tirassegno mietitrici di ori olimpici, ma a un’ampia riconversione dell’intero sistema industriale in direzione bellica. [2]

Tra gli undici accordi firmati a Roma il 29 aprile, il più importante vede la produzione di droni in quattro sedi italiane, fra cui Torino. La città della Mole, già coinvolta nel settore aerospaziale e della difesa, allargherà così la sua vocazione militare. Una prova indiscutibile di questa tendenza viene dall’incontro torinese del 12 aprile figliato direttamente da quello romano, a cui partecipano la Camera di Commercio di Torino e la Tusaş, principale impresa turca produttrice di velivoli militari. Torino dunque non più soltanto città dell’auto, ma anche di scenari di guerra.


Laicità turca addio...

L’idillio romano non si è fermato ai commerci, ma ha anche cercato di rimediare a vecchie ruggini fra Italia e Turchia, come gli ostacoli posti agli studenti turchi in Italia che, dopo visite e vacanze in patria, faticano a ottenere il permesso di rientrare nelle nostre università. È un vecchio tema di attrito, che ha visto protestare gli studenti sia sotto gli uffici del Consolato italiano di Istanbul, sia presso la Facoltà di Lingue orientali dell’Università veneziana Ca’ Foscari.

Durante il convegno romano l’ambasciatrice Ulgen ha gettato acqua sul fuoco: «Gli studenti turchi che studiano in Italia sono naturali ambasciatori delle nostre culture». Parole sante, dal momento che proprio la cultura è il motore turistico fra i due paesi: nel 2024 sono stati 750.000 gli italiani che hanno visitato la Turchia, mentre Ulgen si augura che quest’anno salgano a un milione. Ma – domanda ingenua – perché tante barriere alla libertà di circolazione degli studenti turchi ambasciatori di cultura? A meno che quegli studenti non siano sospettati in blocco dalle autorità turche di essere una manica di contrabbandieri di istanze democratiche e di controinformazione.

La questione dei visti si allarga dunque a un’altra domanda: quanto è forte – e libera – oggi l’opposizione in Turchia? La risposta non è confortante, quando la maggiore speranza di alternativa a Erdoǧan alle future elezioni nella persona di Ekrem Imamoğlu, sindaco di Istanbul, è rinchiusa in carcere dal 19 marzo a Silviri, a ovest di Istanbul. Imamoğlu è accusato di corruzione e di favoreggiamento del terrorismo per il suo patto elettorale con politici filo-curdi.

Quell’arresto è stato un colpo basso di durezza inaspettata per migliaia di persone convinte di progettare e costruire per la Turchia un nuovo futuro. Erdoǧan sembra non avere più antagonisti: finora si è disfatto dei possibili concorrenti convincendoli a passare dalla propria parte grazie a incarichi in ministeri o in aziende pubbliche, arrivando nei casi più ostici alle intimidazioni e alle minacce, ma dopo l’arresto del sindaco Imamoğlu il gioco si è pienamente scoperto.

La Turchia – ed ecco un’altra osservazione ingenua – non è più quella di Mustafa Kemal Atatürk, fondatore il 29 ottobre 1923 di una repubblica laica. Talmente laica, che Atatürk osò imporre alla propria patria i caratteri latini al posto del tradizionale alfabeto arabo, così da dialogare a viso aperto con l’Occidente più o meno democratico che fosse. Dov’è finita quella laicità?

Che opposizione è mai possibile a Erdoǧan, quando il presidente gode del sostegno politico dell’Unione Europea e soprattutto dei cospicui finanziamenti di Bruxelles per trattenere i migranti entro i propri confini? Un presidente libero di giocare con i fondamentalismi per condizionare i rapporti di forza nel Medio Oriente, e che domani potrà bombardare le popolazioni del Kurdistan con i droni prodotti a Torino.


 

Note


 [2] L’Italia è sesta nella classifica dei paesi esportatori di armi, con un aumento del 138% nel quinquennio 2020-24. Fonte: Il Sole-24 ore del 10 marzo 2025.

 

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