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Israele: una democrazia sospesa tra colonialismo ed economia tesa al genocidio

  • Vice
  • 4 giorni fa
  • Tempo di lettura: 6 min

I rapporti di Francesca Albanese, relatrice dell'Onu

di Vice


Raccoglie insulti, polemiche astiose, giudizi spregiativi su scala industriale anche da chi non ha mai letto una sola riga dei suoi rapporti vergati per l'Onu, ma si è limitato al massimo a leggerne i titoli che duplicano affermazioni di altri. E c'è chi si è persino distinto nel definirla una miniera di odio. Da alcuni anni, questo è il destino di Francesca Albanese, nata ad Ariano Irpino, in provincia di Avellino, giurista e docente, specializzata in diritto internazionale e diritti umani, dal 2022 relatrice speciale delle Nazioni Unite sui territori palestinesi occupati dal 1967, cui si deve l'ultimo rapporto datato 30 giugno 2025. Un rapporto diventato l'ennesima pietra dello scandalo per chi non vuole sentire, né vedere e confrontarsi con le sue argomentazioni che puntano dirette al cuore della questione: la violenza dei sistemi praticati dallo Stato di Israele nei territori occupati e non solo.[2]

Accuse che arrivano da lontano, firmate da una relatrice non convenzionale, riluttante a paludate parafrasi per non urtare i manovratori del mondo, che con coraggio osserva, analizza, documenta la situazione in un'area del mondo in cui la morte per le condizioni di vita rischia di essere accolta come un premio. La sua fermezza l'ha dimostrata fin dal primo documento ufficiale con cui ha raccomandato agli stati membri dell'Onu di sviluppare "un piano per porre fine all'occupazione coloniale israeliana e al regime di apartheid" e di mantenere una reale autonomia di pensiero e di comportamento opposta a quella di Stati Uniti, descritti come "soggiogati dalla lobby israeliana", e dell'Europa, oppressa "senso di colpa per l'Olocausto", privi di via d'uscita se non quella di condannare aprioristicamente gli oppressi nel conflitto.

Superfluo aggiungere che i rapporti con il timbro dell'Onu di Francesca Albanese non sono mai stati accolti con favore dallo Stato di Israele che lo scorso anno le ha negato l'accesso nei suoi confini, bollandola come persona indesiderabile. Al premier Netanyahu e al suo gabinetto governativo era risultato indigeribile, in particolare, l'analisi dell'ottobre scorso dal titolo Genocide as colonial erasure, ("Genocidio come cancellazione coloniale"), che ha evidenziato le atrocità sul popolo palestinese, tali per durata, quantità e crudeltà da trasformare l'occupazione in una sistematica pulizia etnica che nella sostanza si caratterizza come una marcata vocazione al genocidio. In altri termini, come è possibile leggere anche su più articoli nel web, la Relatrice Speciale "sottolinea che la persecuzione che Israele perpetua dopo gli avvenimenti del 7 ottobre 2023 nei confronti della popolazione palestinese non deve essere isolata dal piano premeditato di eliminazione della popolazione indigena mediante lo spostamento e la sostituzione forzati, omicidi di massa, incarcerazioni di massa, segregazione razziale e la costruzione di un regime di apartheid". Il che non significa altro che lo Stato di Israele "fin dall'inizio, coperto dallo status di eccezione e dalla prolungata impunità, ha sistematicamente violato il diritto internazionale perseguendo l'obiettivo del Grande Israele  su tutta la ex Palestina Mandataria. 

Di Esquerda.net - Encontro com relatora especial da ONU, Francesca Albanese - Out.24, CC BY-SA 2.0, https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=16314216
Di Esquerda.net

Ancora. Sullo sfondo di un dibattito distorto e manipolato, che ha portato il mondo ad accalorarsi e a impigliarsi sulla parola genocidio, per non sentirsi complice o propalatore di rigurgiti antisemiti, appare oggi del tutto evidente, dinanzi al Spoon river di Gaza e alle sue 56 mila vittime, che l'autodifesa proclamata dallo Stato d'Israele come elemento fondante della sua stessa esistenza ha prodotto un meccanismo di così elevata distruzione di massa e di persecuzione sistematica letteralmente estraneo al concetto valoriale della parola medesima.

Non a caso, sono sempre più numerosi gli analisti, storici ed intellettuali in generale, anche israeliani, che convergono, interrogandosi sulle falle prodotte nel sistema democratico israeliano, pur partendo da esperienze diverse e non sempre con gli stessi iniziali pensieri, a identificare l'eliminazione progressiva e quotidiana della popolazione civile palestinese come effetto di una vocazione al colonialismo insita nello Stato di Israele. E non è un caso che Francesca Albanese nelle sue conclusioni abbia invitato la comunità internazionale a procedere ad un completo embargo sulle armi con sanzioni nei confronti di Israele, al tempo stesso riconosciuto come Stato di apartheid.

Riflessioni riprese durante la 59a sessione del Consiglio per i Diritti Umani delle Nazioni Unite, con l'ultimo rapporto From economy of occupation to economy of genocide, sottotitolo Report of the Special Rapporteur on the situation of human rights in the Palestinian territories occupied since 1967, un'esposizione di 39 pagine, che reca la data del 30 giugno scorso, come riportata sopra.

La traccia del lavoro è contenuta in una decina di righe del sommario in cui si esplicita che la relatrice indaga "sulla situazione dei diritti umani nei territori palestinesi occupati dal 1967 [e] sui meccanismi aziendali che sostengono il progetto coloniale israeliano di sfollamento e sostituzione dei palestinesi nei territori occupati. Mentre leader politici e governi si sottraggono ai propri obblighi, troppe entità aziendali hanno tratto profitto dall'economia israeliana dell'occupazione illegale, dell'apartheid e ora del genocidio. La complicità denunciata dal rapporto è solo la punta dell'iceberg; porvi fine non sarà possibile senza chiamare a rispondere il settore privato, compresi i suoi dirigenti. Il diritto internazionale riconosce diversi gradi di responsabilità, ognuno dei quali richiede esame e assunzione di responsabilità, in particolare in questo caso, dove sono in gioco l'autodeterminazione e la stessa esistenza di un popolo. Questo è un passo necessario per porre fine al genocidio e smantellare il sistema globale che lo ha permesso".

I settori coinvolti sono facilmente e ovviamente riconoscibili: industria militare, imprese ad alta tecnologia, sistema finanziario, università e centri di ricerca direttamente sostenuti e finanziati dalle multinazionali, un coacervo di potere che ha spianato, in coda all'oppressione, proprio nel senso letterale del termine, il popolo palestinese. Di qui, nei paragrafi 29-30-31 l'illuminante descrizione del metodo adottato da Tel Aviv:


La violenza militarizzata creata dallo Stato di Israele rimane il motore del suo progetto coloniale di insediamento. I produttori di armi israeliani e internazionali hanno sviluppato sistemi sempre più efficaci per cacciare i palestinesi dalle loro terre. In stretta collaborazione hanno perfezionato tecnologie che consentono a Israele di intensificare l'oppressione, la repressione e la distruzione. L'occupazione prolungata e le ripetute campagne militari hanno fornito un banco di prova per capacità militari all'avanguardia: piattaforme di difesa aerea, droni, strumenti di puntamento basati sull'intelligenza artificiale e persino il programma F-35 guidato dagli Stati Uniti d'America. Queste tecnologie vengono poi commercializzate come "collaudate in battaglia".

Il complesso militare-industriale è diventato la spina dorsale economica dello Stato. Tra il 2020 e il 2024, Israele è stato l'ottavo maggiore esportatore di armi al mondo. Le due più importanti aziende israeliane produttrici di armi – Elbit Systems, fondata come partenariato pubblico-privato e successivamente privatizzata, e la Israel Aerospace Industries, di proprietà statale – sono tra i 50 principali produttori di armi a livello mondiale. Dal 2023, Elbit Systems ha collaborato strettamente alle operazioni militari israeliane, inserendo personale chiave nel Ministero della Difesa e ha ricevuto il Premio Israeliano per la Difesa 2024. Elbit Systems e Israel Aerospace Industries forniscono un approvvigionamento interno fondamentale di armamenti e rafforzano le alleanze militari israeliane attraverso l'esportazione di armi e lo sviluppo congiunto di tecnologia militare.


Le conclusioni (da paragrafo 87 a 93, ma sono sufficienti i primi due) lasciano spazio sia alle emozioni che a pensieri razionali, ma ciò, paradossalmente, non fa che amplificare un fondo di amarezza e la sensazione di essere oramai nelle mani di pochi disponibili a tutto, anche a sacrificare l'umanità intera per completare il folle progetto in cui le loro esistenze hanno valore soltanto con la morte degli altri.


Mentre la vita a Gaza viene annientata e la Cisgiordania è sotto attacco crescente, il presente rapporto mostra perché il genocidio perpetrato da Israele continua: perché è redditizio per molti. Facendo luce sull'economia politica di un'occupazione trasformatasi in genocidio, il rapporto rivela come l'occupazione eterna sia diventata il banco di prova ideale per produttori di armi e grandi aziende tecnologiche, garantendo un'offerta e una domanda illimitate, scarsa supervisione e zero responsabilità, mentre investitori e istituzioni pubbliche e private ne traggono liberamente profitto. Troppe influenti entità aziendali rimangono indissolubilmente legate finanziariamente all'apartheid e al militarismo israeliani. Dopo l'ottobre 2023, con il bilancio della difesa israeliano raddoppiato e in un periodo di calo della domanda, della produzione e della fiducia dei consumatori, una rete internazionale di aziende ha sostenuto l'economia israeliana. Blackrock e Vanguard si classificano tra i maggiori investitori in aziende di armi fondamentali per l'arsenale genocida di Israele. Le principali banche globali hanno sottoscritto titoli del Tesoro israeliani, che hanno finanziato la devastazione, e i maggiori fondi sovrani e pensionistici hanno investito risparmi pubblici e privati ​​nell'economia genocida, pur dichiarando di rispettare le linee guida etiche.


Note

[1]Francesca Albanese è un avvocato internazionale, specializzato in diritti umani e Medio Oriente. Dal maggio 2022 è relatrice speciale delle Nazioni Unite sulla situazione dei diritti umani nei territori palestinesi occupati dal 1967.

Dal 2018, Albanese ha insegnato e tenuto conferenze in varie università in Europa e Medio Oriente. È anche responsabile del programma di ricerca e assistenza legale sulla migrazione e i richiedenti asilo nel mondo arabo per il think tank Arab Renaissance for Democracy and Development (ARDD), ed è co-fondatrice del Global Network on the Question of Palestine (GNQP), una coalizione di eminenti esperti e studiosi regionali e internazionali impegnati nella questione di Israele/Palestina.

Prima del suo impegno accademico, ha lavorato con organizzazioni internazionali, tra cui l'Ufficio dell'Alto Commissariato per i Diritti Umani (OHCHR) e l'Agenzia per il Soccorso e l'Occupazione dei Rifugiati Palestinesi (UNRWA).

Nel corso del suo mandato di Relatrice Speciale, Francesca Albanese si è impegnata per l'imparzialità e l'inclusività. Sottolinea che la vera imparzialità non può essere né ignoranza né indifferenza. Al contrario, si tratta di indagare obiettivamente i fatti attraverso la lente del diritto internazionale e di riconoscere e affrontare - invece di negare o ignorare - lo squilibrio di potere sottostante o le ingiustizie storiche. Il curriculum completo in Francesca Albanese - Italia | OHCHR.


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