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Israele, oltre Netanyahu: le paure di una nazione

di Michele Ruggiero |

Nato sotto il segno della Bilancia (21 ottobre 1949), in realtà l’architetto (si è laureato negli Stati Uniti) Benjamin Netanyahu, uomo forte d’Israele, ha sempre manifestato (e coltivato senza risparmio) la tendenza del segno zodiacale successivo, lo Scorpione. Ed ora più che mai, come nella barzelletta della rana e dello scorpione, emerge la sua natura che riverbera in tutta la sua velenosità sulla vita politica israeliana. In cauda venenum: “È la truffa del secolo, scandaloso che con 6 seggi si possa fare il premier”, grida a mondo e dintorni, dopo che i suoi avversari gli hanno inviato una citazione di sfratto. Rimanere fuori dalle stanze del potere, dopo dodici anni di ininterrotto regno, che ne hanno fatto il leader più longevo di Isreale, è un fatto incomprensibile per la dimensione esistenziale di Bibi, com’è soprannominato il premier della stella di David. Ma, attenti a non confondere la sua rabbia come un atto di arrendevolezza, di debolezza o peggio di sfogo. Netanyhau è un freddo calcolatore che usa con disinvoltura teatrale reazioni e frasi apparentemente dettate dell’impulsività. Uno schermo per celare quanti ancora in silenzio credono in lui, e sono tanti, mentre i suoi avversari si affidano all’esortazione e manifestazioni pubbliche per chiederne l’uscita di scena. In questo, Netanyahu è di una classe superiore a qualunque altro politico israeliano: è l’architetto perfetto e migliore di se stesso, che sa mescolare con dovizia fantasia e razionalità. Un mix raffinato ed applicato alla politica per servire il potere e gli interessi di Israele, tanto quelli leciti, quanto quelli impronunciabili, che se da un lato ha dato nell’ultimo decennio sicurezza alla nazione, dall’altro ne ha snaturato la ricerca della pace (quella autentica e non di facciata) che era stata tra l’altro il suo cartello elettorale d’esordio. Di quel mix che ha incantato e sedotto con una maggioranza di destra sempre più destrorsa, la terra d’Israele oggi è però stanca per la pandemia. Ed è pure sfibrata per la guerra con Hamas e i palestinesi. In ultimo, ma non meno importante, è preoccupata per i conti pubblici che lambiscono la bancarotta. Morale: Israele è una società confusa che Netanyahu ha provato a scuotere con dosi massicce di elettroshock sotto forma di elezioni (quattro in poco più due anni) alimentate da una propaganda all’insegna del populismo e della cultura “contro” e mai “per”, divisiva, mai unitaria. Demagogia e prove di forza, in sintesi, che hanno innalzato muri e scavato fossati di diffidenza e di odio verso l’esterno. Un bilancio pesante per Israele anche sul piano delle relazioni internazionali. Su questo scenario, la prospettiva di aprire le finestre per far entrare aria nuova sembrerebbe salvifica, quasi un cambio di abitudine per Israele. La coalizione del cambiamento orchestrata da Yair Lapid, leader del partito Yesh Atid, insieme con il leader del partito ultranazionalista Yamina, Naftali Bennett (ex Likud, il partito di Bibi), più altri partiti, addirittura Ra’am partito islamico, risponde a questa esigenza di sopravvivenza. Non a caso per Bennett si tratta di un’opportunità “per far uscire Israele dalla voragine”. Secondo indiscrezioni, la strana alleanza contemplerebbe la guida del Paese e il ministero degli Esteri a rotazione biennale tra Lapid e Bennett. A disposizione per un governo di unità nazionale “ancora 24 ore”, come in un vecchio film di Hollywood, perché il mandato del presidente Reuven Rivlin (classe 1939) scade domani, quando la Knesset dovrà votare il nuovo Presidente di Israele. Ventiquattr’ore per ottenere anche l’appoggio esterno del partito arabo di Abbas Mansour, che però chiede finanziamenti per educazione, più forze di polizia nei villaggi e cittadine a maggioranza araba e più contrasto alla criminalità oltre alla cancellazione della legge Kaminitz che penalizza l’abusivismo edilizio arabo (più care le multe rispetto agli israeliani). Un incontro non facile, né semplice per le reazioni che si innescherebbero all’interno di Yamina. Per contro, Netanyahu si ritrova isolato proprio a causa delle sua ripetitiva e cantilenante narrazione del “noi contro il mondo”. Un refrain che gli ha alienato anche appoggi e consensi di potenziali partner di destra, come Lieberman, Sa’ar, Shaked e lo stesso Bennett, un suo ex “fedelissimo”. E non è un caso. Al netto degli umani errori, Bibi è sopratutto vittima di se stesso, del suo ego smisurato, che gli ha impedito di costruire una successione, di offrire all’opinione pubblico un suo “delfino”. Il senso di insostituibilità è un demone che accoppiandosi alla superbia rende prima sterili per poi far perdere il contatto dalla realtà.

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