Il sequestro di Aldo Moro: ritorno a un'Italia divisa
- La Porta di Vetro
- 16 mar
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Il 16 marzo 1978 in via Fani a Roma, cominciava a morire la politica di solidarietà nazionale nata dall'incontro tra le due più grandi forze politiche italiane dell'epoca: la Democrazia Cristiana e il Partito comunista italiano, che si esprimevano in quel contesto attraverso le figure di Aldo Moro e di Enrico Berlinguer. Ma nessuno ancora lo sapeva. Qualcuno lo sperava. In particolare all'estero, anche se non si accarezzava l'ipotesi in forme violente o non così violente. Invece, quel giorno, il "partito armato", le Brigate rosse costruite attorno a un'idea irrealistica da Renato Curcio e Alberto Franceschini e proseguita, dopo l'arresto dei due, con furore sanguinario dal nuovo capo Mario Moretti, diede un decisivo impulso a chi prefigurava la destabilizzazione politica del Paese.
Le Br fecero il cosiddetto "salto di qualità" nella sfida allo Stato, dopo aver ucciso negli anni e nei mesi precedenti magistrati, carabinieri e poliziotti, giornalisti: in via Fani, fu sequestrato il Presidente della Democrazia Cristiana Aldo Moro. Un blitz accompagnato dallo sterminio dei cinque uomini di scorta: il maresciallo dei carabinieri Oreste Leonardi, l'appuntato dei carabinieri Domenico Ricci, il vicebrigadiere di Ps Francesco Zizzi, gli agenti di Ps Giulio Rivera e Raffaele Iozzino. Cinque corpi trucidati dalla "geometrica potenza" di fuoco, espressione coniata e diventata tragicamente iconica da Franco Piperno, uno degli esponenti più influenti di Potere operaio. Il numero uno delle Br, Mario Moretti, scriverà anni dopo dal carcere: "Progettando il sequestro sapevamo che lo scontro sarebbe stato durissimo, ma che sul piano della 'propaganda armata' sarebbe stato un successo".

Nella realtà, quel successo si rivelò effimero per il futuro prossimo della lotta armata e, soprattutto, per il destino di centinaia di giovani ammaliati dalla violenza e sospinti nel gorgo terroristico e a scontare migliaia di anni di carcere, perché proprio il sequestro di Aldo Moro, che divenne per 55 giorni il calvario dello statista, più volte ministro e presidente del consiglio, certificò il distacco etico e morale tra l'eversione e la volontà democratica degli italiani.
In quella prigionia maturò nel pensiero e nell'azione di potenti forze esterne e interne, alleate tra di loro, con le seconde subalterne alle prime, il piano non più soltanto terroristico che Aldo Moro dovesse morire. La sua morte avrebbe riportato l'Italia in una posizione statica e contribuito a logorare rapidamente il rapporto tra Dc e Pci, deprivato di uno dei due architetti politici. Così avvenne. Il 9 maggio, il leader democristiano fu ritrovato morto nel retro di una Renault 5 rossa, in via Caetani, nel centro di Roma, a metà strada tra piazza del Gesù e via delle Botteghe Oscure, sedi storiche della Dc e del Pci.

Tra il sequestro e l'uccisione, le indagini furono ammorbate da depistaggi, falsi comunicati stampa, interventi di autentici criminali, agenti segreti di più Paesi, dell'est e dell'ovest, esperti nella manipolazione, la cui unità d'intenti era soltanto quella di sollevare e di gettare polvere negli occhi per allontanare la salvezza di Aldo Moro, quest'ultimo determinato a rimanere in vita, quanto consapevole mano mano che si allungavano i giorni della sua liberazione, dell'esistenza di una regia occulta per restituirlo morto alla sua famiglia, insieme con i numerosi misteri che ancora sopravvivano a distanza di quasi mezzo secolo dal quel delitto.
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