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Marco Travaglini

Il marmo piemontese per la bellezza del Duomo di Milano

di Marco Travaglini


A monte della frazione di Candoglia, nel comune di Mergozzo, sulla sinistra del fiume Toce e proprio all’imboccatura della Val d’Ossola, si trovano le cave da cui proviene il marmo del Duomo di Milano. Fu Gian Galeazzo Visconti, fondatore della Veneranda Fabbrica del Duomo, a decidere di sostituire il mattone, originariamente pensato per la costruzione del Duomo meneghino nel progetto iniziale, con il marmo. Una scelta motivata dalla sua bellezza cristallina, screziata di rosa, unita alla grande resistenza al punto da condizionare non solo l’architettura e la statica del Duomo sormontato dalla Madonnina, ma anche la parte ornamentale. A questo scopo, il 24 ottobre 1387, Gian Galeazzo cedette in uso alla Fabbrica le cave di Candoglia e concesse il trasporto gratuito dei marmi fino a Milano attraverso le strade d’acqua, in modo che fosse possibile averne sempre in abbondanza per conservare inalterato nei secoli lo splendore dell’opera. Inizialmente la Fabbrica utilizzò la cava a cielo aperto detta delle Piane, situata appena sopra il letto del Toce ma, successivamente, si decise di spostare l’escavazione sempre più in alto, fino alla quota di 580 metri a causa di smottamenti, frane e carenza di materia prima. Strumenti di ferro come ad esempio picconi, mazze, punte, cunei, palanchini, furono i soli mezzi tecnologici in uso nelle cave fin dalla loro apertura e alcuni di essi lo sono ancora oggi.

Con l’avvento dell’energia elettrica, sul finire del XX° secolo, la lavorazione diventò più efficace grazie alle innovazioni tecnologiche (filo veloce e lame a catena diamantati, etc.), che hanno reso più rapida e selettiva la preparazione dei blocchi di marmo. Il trasporto del materiale fino a Milano avveniva dal Toce al Lago Maggiore lungo i corsi del Ticino e del Naviglio Grande e poi dentro al cuore della città fino alla darsena di S. Eustorgio, a Porta Ticinese. Attraverso il sistema di chiuse, realizzato dalla Veneranda Fabbrica, il carico arrivava fino a quella che oggi è via Laghetto, a poche centinaia di metri dal cantiere della cattedrale. I barcaioli, per entrare in città, utilizzavano una parola d’ordine: “Auf”, l’abbreviazione di Ad usum fabricae, cioè ad uso della Fabbrica, con la quale potevano passare senza pagare il pedaggio e in Lombardia ne è rimasta traccia nell’espressione “A ufo” che significa gratuitamente. Nel 1874 la Cava Madre fu collegata all’abitato di Candoglia da una strada ma il trasporto dei blocchi fino al cantiere rimase via acqua per cinque secoli, fino al 1920, per poi passare definitivamente su strada. L’esigua larghezza della vena di questo marmo rende difficile e costosa la sua estrazione. Ciò ha costituito uno dei problemi più assillanti per il rifornimento del cantiere del Duomo: risultava infatti particolarmente difficile prevedere la quantità totale di marmo richiesta da un così grande edificio e dal suo ingente apparato scultoreo.

Per risolvere il problema gli architetti delle Veneranda Fabbrica furono costretti ad aprire nuove cave a quote sempre più elevate, con un conseguente aumento di costo e di tempo per il trasporto dei blocchi dai punti di estrazione fino all’imbarco sul fiume Toce. Un’ulteriore difficoltà era rappresentata, tanto nei secoli addietro quanto ai giorni nostri, dalla percentuale di marmo utilizzabile rispetto a quella scavata che si aggirava tra il 10 e il 25%. Tutte queste incognite, tuttavia, non hanno mai fermato l’attività della Fabbrica che ancora oggi affronta la grande impresa di conservazione del Duomo, curando la coltivazione e la manutenzione delle cave con il suo personale e il supporto delle più avanzate tecnologie.


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