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Il carcere è un luogo di riscatto, non di vendetta sociale

Aggiornamento: 3 apr

di Guido Tallone


Alla Biennale Democrazia di Torino che si è tenuta la settimana scorsa per cinque giorni a Torino è stata nuovamente presentata la dura e indecente realtà delle “nostri” carceri, tra l'altro riportata con meritoria dovizia di particolari anche in questi giorni dall'ex sindaco di Roma, Gianni Alemanno con il suo diario da una cella del carcere di Rebibbia che lo "ospita" dal 31 dicembre scorso. I numeri parlano chiaro: 62.267 detenuti in Italia con 16.000 persone dietro le sbarre che non hanno un posto regolamentare (tasso di sovraffollamento “medio” del 132,6% con punte che arrivano al 225%!). Suicidi in carcere: 91 nel 2024 e 21 nei primi tre mesi del 2015. Per citare solo i due indicatori principali della vergogna.


Dallo Stato di diritto allo Stato penale

Ma potremmo parlare anche della negazione dei diritti fondamentali a cui sono sottoposti molti detenuti “ospitati” in edifici fatiscenti (10,3% delle strutture detentive senza riscaldamento; 48,3% senza erogazione dell’acqua calda per ampi periodi dell’anno; 55,2% senza doccia; etc. etc.). Numeri, dati e contesti noti agli addetti ai lavori. Così come è risaputo che agli inizi degli anni ’90 i detenuti in Italia erano la metà rispetto ad oggi: 30.000. Se oggi – dopo tre decenni – sono, in Italia, più che raddoppiati i numeri della detenzione è perché si è scelto di rispondere ai problemi sociali del nostro Paese con lo Stato penale. Significa che si è deciso di sanzionare con la detenzione non solo i reati che impediscono la relazione sociale (furto, rapina, violenza sessuale e quanto lede la persona), ma anche tutto ciò che disturba la vita sociale. Per capirci: in questi ultimi 30/35 anni è cresciuta l’intolleranza della società verso qualsiasi forma di emarginazione, di diversità e di disagio sociale che, spesso e volentieri, sono state interpretate come fenomeni che non solo disturbano la vita dei cittadini più garantiti, ma che vengono intercettati anche come minacce per l’ordine pubblico e la serena convivenza.

Incapaci di rispondere con politiche sociali a questi segmenti di precarietà sociale, i nostri governanti hanno scelto di affrontare il disagio sociale con lo Stato Penale. Il fatto che oltre il 60% dei detenuti in Italia sia composto da tossicodipendenti e da immigrati è la conferma che la prima e la più qualificata risposta data – da parte dello Stato – ai poveri, agli immigrati, agli sbandati, ai dipendenti dalle droghe e ai vagabondi vari è stata ed è ancora il carcere. Cresce l’intolleranza verso disagio, emarginazione ed immigrazione e – di conseguenza – in nome della sicurezza si chiede allo Stato, di allontanare, di contenere, di reprimere e – dove si può – di mettere sotto il “tappeto” quanto deturpa l’estetica del vivere sociale nel segno dell’indifferenza. “Decida il legislatore dove collocare questi “scarti” della società; a me non interessa – dicono in molti – purché non vicino a me”.

Ed ecco il risultato: la politica rinuncia a guidare, ad indirizzare e a “formare” quella parte di opinione pubblica che ha, in parte, diritto ad avere paura, ma che deve essere aiutata ad uscire dal “pensiero semplice” di chi vende fumo e costruisce il suo successo personale e sociale sulle spalle dei più poveri e sfruttando le paure dei disinformati. Penso a quelle forze politiche che assecondano e che alimentano le paure di molti cittadini per amore di “consenso”. Il pugno di ferro contro tante forme di emarginazione sociale presenti nella nostra società, risponde esattamente a questo meccanismo perverso di “paure sociali” di molti cittadini e di “bisogno di consenso” da parte di molte forze politiche. E quale tappeto “usare” per nascondere quel degrado che non si vuole affrontare con politiche sociali e che si desidera nascondere ai propri elettori?


Costruire nuove strutture carcerarie

Il carcere è lo strumento perfetto per questo tipo di operazioni. “Oltre il muro” della realtà penitenziaria sono pochissimi coloro che vi accedono. Solo detenuti e addetti ai lavori. La stragrande maggioranza dei cittadini non conosce nulla del pianeta carcere, anche se moltissimi si sentono in dovere di chiedere sempre più “pene certe”, “più prigioni” e “meno agi!” per i detenuti! Senza capire – tra l’altro – che se aumentano i numeri della precarietà sociale e se lo Stato non affronta queste realtà con solide politiche sociale, cresceranno inevitabilmente, anche i numeri della detenzione. Ben vengano, a questo punto, nuovi edifici carcerari (anche perché il 35% dei “nostri” sono stati costruiti prima del 1950, mentre il 23% del totale prima del 1900!).

Ma illudersi di “curare” un sistema detentivo malato e indecente solo con una riforma della edilizia penitenziaria, è miope e cieco. Nuove strutture detentive sono da fare e in modo urgente. Per creare condizioni di vita umana per i detenuti e per chi in quei contesti lavora (e non dovrebbe avvertirsi anch’egli arretato e privato della sua libertà). Se però il carcere diventa la prima (e unica) risposta sociale a chi è ai margini della società, avremo sempre sovraffollamento e – in più – si ampia anche l’area dell’insicurezza, del precariato e della paura. Ulteriore riflessione. In Italia, già detto, ci sono oltre 62.000 detenuti. Negli Usa – con una popolazione quasi sei volte l’Italia – in prigione ci sono circa 2 milioni e quattrocento mila persone in carcere. Con meno del 5% della popolazione mondiale, gli USA hanno circa il 25% della popolazione carceraria mondiale: segno evidente che quando si privilegia lo stato penale a quello sociale, i numeri (e i costi!) impazziscono.

Impossibile non vederlo: se non si investe in scuole, maestri, assistenti sociali, sport, cultura, politiche sociali, oratori, educatori, opportunità formative e culturali, etc. etc., lo Stato dovrà spendere in strutture detentive, in guardie carcerarie e in percorsi giudiziari dispendiosi per tutti e spesso controproducenti per chi cercava riscatto mentre di fatto – al netto delle sue responsabilità – ha trovato solo le patrie galere.

C’è però una seconda riflessione che deve però essere affrontata per capire perché il tema carcere attiri – in molti e a priori – smorfie, distinguo e un pizzico più o meno ampio di insofferenza. La solidarietà – lo sappiamo – non può essere affidata solo all’emotività. Se questo accade si assiste a forme di elemosina o di assistenza occasionale, ancorata al proprio stato umorale e del tutto sganciata dalla razionalità e dalla continuità.


L'antipatia verso il male come ideologia

La solidarietà va educata e deve essere portata dal piano delle reazioni quasi istintive al livello della volontà e delle scelte. Si tenga presente, però, che visitare un malato, dissetare chi ha sete, dare da mangiare ad un affamato, commuoversi e aiutare un immigrato bisognoso…, sono tutte azioni che incontrano, almeno in teoria, il nostro consenso razionale e affettivo. Diverso è il discorso per chi ha commesso il reato. Non viene voglia di visitare in carcere chi ha commesso un reato o di farsi carico di alcune sue esigenze umane. Nei confronti di chi commette il male cresce, impossibile negarlo, astio, resistenza, presa di distanza e desiderio di assenza dalla sua vita. “In fondo se lo è cercato quanto ora sta pagando. Io non mi commuovo di certo se adesso – dopo aver commesso il reato – lui o lei sta male ed è in carcere. Poteva pensarci prima”. Ed è comprensivo – a livello emotivo – che ciò accada. Per impedire che il male morale si annidi nel proprio cuore, ognuno di noi sperimenta, in modo più o meno intenso, non solo una forte avversione per il male in sé, ma anche un corposo vissuto di antipatia e di ostilità per il responsabile di quel reato. Ovviamente stiamo parlando di reati e di male morale che ci tocca indirettamente. Diverso è il caso di chi è vittima del male morale al quale lo Stato deve dare giustizia e riparazione per evitare che il suo farsi giustizia tracimi nella vendetta.

Restiamo però sul piano generale. Antipatia verso il male in sé e astio e ostilità per chi ha commesso il reato sono reazioni “premorali”: umane, comprensibili, emotive e persino giustificate. Ciò che non deve accadere è che questo piano superficiale della nostra sfera emotiva scenda in profondità fino a diventare non solo scelta, ma anche ideologia che chiede al legislatore di condannare duramente – e possibilmente con quote di violenza – chi ha commesso il reato (e di cui l’opinione pubblica non conosce la storia, le fragilità, i vissuti e come o perché ha messo in atto quelle scelte). Potremmo anche spingerci oltre e affermare che quando la pena detentiva non è trasparente della sua funzione rieducativa, il carcere diventa – al di là dei grandi principi e delle belle teorie – una zona franca della società in cui si esercita la “violenza senza il rischio della vendetta”. La nostra società non può legittimare la vendetta. Chi è però corroso dal tarlo dell’invidia sociale e dal rancore vendicativo causato da mille sue frustrazioni, può sperare (e chiedere) che la pena detentiva sia intrisa – per chi ha commesso il male – di maltrattamenti, di privazioni e di sofferenze affinché la società riesca a “vendicarsi” con la sufficiente violenza senza correre il rischio di doversi appellare alla vendetta.


Separare la vendetta dalla giustizia

Sono questi i pensieri che spesso e volentieri tengono l’opinione pubblica lontana dal tema detenzione, carcere e detenuti. Chi ha sbagliato, ripetono in molti, deve pagare: fino in fondo e possibilmente anche provando sulla sua pelle quanto ha inferto agli altri: “tutto il resto non ci interessa!”. Le cose cambiano – però – se manette, privazioni della libertà, detenzione, sovraffollamento, impossibilità a lavarsi e negazione della dignità umana “toccano” un familiare, un amico o una persona cara. È a questo punto che si decide di uscire dal club di quanti sono convinti che la pena debba essere “certa e dolorosa” (per non dire “vendicativa”) e ci si documenta sul come si potrebbe creare le condizioni perché ogni detenzione diventi umana, intrisa di giustizia e in grado di educare chi la sconta a perdonare sé stesso e a chiedere scusa per il male causato.

Siamo fatti così: tentati ogni giorno di grande severità verso gli altri e – allo stesso tempo – permissivi, tolleranti e faciloni con le proprie colpe, omissioni e responsabilità. Se vogliamo però che attecchisca là dove viviamo (nel privato delle nostre relazioni e nelle istituzioni pubbliche) quella giustizia sociale che si rifiuta di affidare alla galere chi vive ai margini del contesto sociale, è necessario andare in senso contrario al nostro istintivo autodifendersi e diventare severi con noi stessi e – allo stesso tempo – buoni, tolleranti, giusti (non vendicativi) e pronti a concedere nuove opportunità a chi per mancanza di maestri (e per assenza della giusta severità educativa) oggi deve essere aiutato a cambiare. Solo se la giustizia si lascia completare dal perdono la pena (e di conseguenza anche la detenzione) diventa riscatto che libera tanto chi ha commesso il male quanto la nostra società. E separa, una volta per tutte, la vendetta dalla giustizia.

   

                                                                                                           

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