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Guerre e repressione delle richieste di pace: volto unico del potere oggi in Italia

di Beppe Reburdo


Sono giorni tristi per li mondo e per il nostro Paese. Il moltiplicarsi delle guerre, la reazione dei governi nel rispondere alla guerra, direttamente e indirettamente, con altrettanta guerra e alzando sempre più il livello dello scontro. L’incremento delle spese militari con il conseguente taglio delle risorse pubbliche su scuola e formazione, sanità, welfare, ambiente aggrava le tensioni e sviluppa l’uso della violenza verso chi, come i giovani e non solo, cerca di reagire chiedendo la fine delle guerre, l’abbattimento delle spese militari, rapporti universali fondati sulla giustizia e sulla pace. Premesso d'obbligo per ribadire la piena dignità per tutti i popoli oppressi e quindi anche una patria per i palestinesi garantita da due popoli due stati, di fronte al fatto che il governo israeliano risponde al massacro del 7 ottobre da parte di Hamas in termini inaccettabili con concreta possibilità di un vero e proprio genocidio dei palestinesi (già trentamila morti) portano a una significativa mobilitazione a partire dai giovani e dagli studenti, per opporsi all’acritico coinvolgimento italiano e europeo e per chiedere l’immediata cessazione delle guerre e l’apertura di trattative con risoluzione degli annosi irrisolti problemi. Stessa situazione si verifica per la guerra in corso tra Russia e Ucraina, certamente con determinanti responsabilità del dittatore Putin, ma con la necessità immediata di trovare adeguate soluzioni di pace, come chiede da tempo Papa Francesco, cui la presidente del Consiglio Giorgia Meloni nei giorni scorsi non ha trovato di meglio che offrire la parodia del funereo "Patto d'acciaio" del 1939 con la Germania, per firmare un accordo di cooperazione con l'Ucraina. Accordo che rischia di precipitare nel velleitarismo, che parla di tutto per non entrare mai non tanto nel merito, ma in quelle che sono le concrete possibilità d'assistenza dell'Italia, il cui debito pubblico continua a marciare a ritmi sostenuti, e che non dispone di un'industria militare per sostenere ad ampio raggio lo sforzo bellico di Kiev. A meno di non voler cominciare regalando all'Ucraina i 132 carri Leopard 2A8IT per una spesa complessiva di 8 miliardi di euro, che il governo ha appena acquistato dalla Germania "per massimizzare la potenza di fuoco", come ha denunciato il quotidiano cattolico Avvenire di ieri l'altro.

Dunque, tra Meloni e Zelensky un siparietto di natura propagandistica (per usare un eufemismo, mentre si muore al fronte) utile più all'immagine del presidente ucraino, prontamente a favore di telecamere, dopo mesi di oscuramento forzato. Insomma, una passarella ripresa in Italia a "reti unificate", ma che per converso ha illuminato soprattutto il vuoto politico e l'assenza di strategia diplomatica su cui galleggia Zelensky, il cui unico mantra internazionale rimane l'eterna richiesta di aiuti militari a fondo perduto, dando in garanzia la sicurezza personale di vincere la guerra contro Mosca. Una guerra non potrà mai essere vinta sul campo, come dimostrano i fatti recenti, a meno di trascinare il mondo in un olocausto nucleare. Dunque, una doppia ragione per cominciare a disarmare Putin con un lavoro a maglie strette nelle sedi internazionali, rivitalizzando l'Onu, sviluppando missioni di pace, di avvicinamento e di incontro sulla base di accordi per la coesistenza pacifica tra i due popoli.

È del tutto ovvio quindi che si intensifichino le mobilitazioni che però si muovono in un opaco contesto istituzionale e di un governo, nella sua struttura portante, con origini culturali, storiche, politiche non decisamente radicate nella nostra costituzione democratica e antifascista. Infatti, gli avvenimenti di questi giorni legati in particolare alle manifestazioni pro Palestina tenutesi a Pisa e Firenze, ma già precedute da Milano, Torino, con inusitate violenze della polizia su giovani e giovanissimi aprono un contenzioso di agibilità democratica e possibilità di dissenso espresso in modo libero e non violento. E qui scatta il ricordo di precedenti manifestazioni pacifiste e in particolare di Genova 2001 in occasione del summit del G8 in cui lo Stato ha cercato la provocazione e ha usato mezzi di repressione sino alla tortura purtroppo confermate dalla sentenza della Corte Europea che ha condannato l’Italia per tali comportamenti.

Decisamente si pone una interpretazione della democrazia partecipata attraverso la quale lo Stato nel suo insieme deve facilitare il confronto sociale perché le istituzione sono una parte fondamentale della rappresentanza ma se non permettono una osmosi tra loro e quello che si muove pluralisticamente non fanno e non siamo una democrazia compiuta! Attorno a questi spazi si sono verificate, in particolare a Pistoia, vulnus pesanti nel momento in cui invece del dialogo si è usato arrogantemente e provocatoriamente il manganello con una ferocia incontenibile nei confronti di giovanissimi, esattamente come si è verificato a Genova nel 2001, ma senza l’alibi di forze violente nel corteo.

Il punto è proprio questo e che lo fa diventare un salto verso la vera e propria repressione. Violenti non c’erano e quindi gravissimo quello che è successo. Giustamente il presidente Sergio Mattarella è intervenuto, come il Vescovo di Pistoia richiamando che l’uso del manganello non educa e non dialoga! Non vorremmo che la violenza poliziesca venga strategicamente usata per allontanare i giovani dalla partecipazione attiva e con gli strumenti non violenti che intendono darsi. La responsabilizzazione e l’esempio dovrebbero venire dalle istituzioni, ma questo governo ha lasciato al ministro dell'Interno Matteo Piantedosi - quasi il minimo sindacale con quel laconico "valuteremo gli eccessi", sullo sfondo di immagini che hanno destato lo sconcerto in più strati della popolazione - la risposta al fermo richiamo del Presidente della Repubblica. In questo senso la gestione dell’ordine pubblico è la cartina di tornasole della democrazia. Purtroppo dal 2001, da Napoli e da Genova in poi, è calato quel minimo di fiducia con le divise e il loro ruolo trasparente, indipendentemente dal governo in carica. Ed è un dato di fatto preoccupante per la storia contemporanea della Polizia di Stato, per il suo processo di sindacalizzazione e democratizzazione delle strutture dagli anni Settanta del Novecento, che andrebbe recuperato. Ma ripetiamo, la loro gestione e la loro formazione in favore della democrazia non può essere quella dimostrata nei confronti dei movimenti pacifisti, ambientalisti, dei diritti e del lavoro.

La scommessa è proprio questa, ma il governo attuale e una certa superficiale indifferenza dei governi precedenti presenta pesanti interrogativi e sfiducia. Qui cresce quindi la responsabilità dei movimenti dal basso che debbono non cadere nelle provocazioni e farsi carico degli aspetti di democrazia che le loro fondamentali lotte comportano. Questo vuol dire creare una alternativa sui problemi, ma anche consolidare sempre più ampi spazi democratici dal basso.

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