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Dopo Shanghai, Occidente è sinonimo di marginalità

di Emanuele Davide Ruffino e Germana Zollesi


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Mentre l’Occidente sembra cercare tutti i modi per farsi del male, il resto del mondo sta cercando di cambiare le regole al vertice SCO (Organizzazione per la Cooperazione di Shanghai) ridefinito vertice Anti-Nato (anche perché un nuovo ordine, tranne la volontà di distruggere l’attuale, non è stato individuato).

Del resto, il presidente russo Vladimir Putin, il leader cinese Xi Jinping, il presidente iraniano Masoud Pezeshkian, il premier indiano Narendra Modi e quello turco Tayyip Erdogan, presi singolarmente o insieme non sembrano proprio rappresentare un campionario di amanti della libertà. Anche in Turchia e in India, pur rientrando nei Paesi democratici a base elettorale, il modello di convivenza presenta non poche lacune (non dimentichiamo che Mario Draghi, all'epoca primo ministro, definì Erdogan un dittatore). Eppure questi personaggi ritengono di poter disegnare il futuro del pianeta relegando l’Occidente ad un ruolo marginale e per forza militare ed economica ne hanno i numeri, ma forse non il collante ideologico, a meno di non considerare tale l’avversione all’Occidente cristiano in una forma allargata di “musulmano-comunismo”.  

 

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Un po’ di mea culpa

A questa sfida l’imbelle Occidente "reagisce" ignorando il problema. Ora che la situazione sia imbarazzante lo si percepisce da più angolazioni, ma la reazione prioritaria, anche a giudicare dagli scarsi approfondimenti sui mass media, rimane quella di evitare di approfondire il problema [1]. L’Occidente pensava di mettere in crisi i “cattivi” imponendo sanzioni (e poi lasciare che queste risultassero facilmente eludibili per non toccare qualche interesse) senza rendersi conto che, se si associano, sono loro a imporre sanzioni a noi (da sanzionatori a sanzionati il passo è breve).

Il problema non è solo economico, anzi questo ne è solo la conseguenza: il mondo sembra rifiutare il modello democratico fondato sul consenso popolare, ma a ben vedere siamo noi stessi che non ci riconosciamo più in questo modello (come insegna il tentativo di insurrezione attuato a Washington il 6 gennaio 2021 con la indiretta partecipazione di Donald Trump, che di democratico non aveva niente). Ogni decisione presa da chi ha vinto regolarmente le elezioni viene messa in discussione non in una normale e proficua dialettica, ma come negazione della legittimità della controparte. E se mancano le occasioni si riprende un provvedimento del 2017 (governo Renzi) come ha fatto il premier Bayrou accusando l’Italia di dumping fiscale. E che non abbia tutti i torti lo sottolineano le dichiarazioni fatte sull'imperfetta concorrenza già all’interno dell’UE. Non si ragiona su come costruire un modello europeo più efficiente e più equo, ma come attaccare una controparte.

Persino la francese Lagarde ha sconfessato il sistema francese e ha elogiato quello italiano, ma anziché studiare i punti di forza e debolezza si cerca di inveire contro un avversario. I paradisi fiscali in Europa ci sono, ma non è certo l’Italia che applica le tariffe tra le più alte, tant’è che sono numerose le aziende che trasferiscono la loro sede legale in altre parti del continente: l’Italia ha cercato di fare la furbetta con normative simili a quelle portoghesi per attrarre capitali e persone con alto reddito. Ritorna l’assioma dei dazi: sono giusti quelli che mettiamo noi, sono sbagliati quelli che emettono gli altri… non proprio una grande visione del futuro.

Questo metodo si sposta cercando di colpire le tradizionali democrazie, anche correndo il rischio di appoggiare forme di terrorismo, anziché preoccuparsi che le truppe nordcoreane (forse anche loro preoccupate per l’affermarsi delle democrazie nella Mitteleuropa), sono a poche migliaia di chilometri dai nostri confini e viaggiare sugli aerei per chi non si adegua ai russi sta diventando pericoloso (solo avvertimenti, come gli attacchi hacker dei mesi scorsi ad enti e istituzioni).

Noi italiani abbiamo una serie di stati cuscinetto, ma i Paesi più vicini cominciano ad avere paura: in primis Svezia e Finlandia che dal neutralismo sono entrate nella Nato, ma soprattutto i Paesi Baltici la cui annessione all’Unione Sovietica non fu mai riconosciuta dai Paesi occidentali (USA, Gran Bretagna) neanche negli anni della Seconda guerra mondiale, nonostante l’alleanza militare con l’URSS (allora si pensava che la libertà di un popolo non potesse essere oggetto di trattativa), per non ricordare la paura degli abitanti di Taiwan quando sono sorvolati dai caccia cinesi.

 

La speranza d’identificarsi nei valori

Con un po’ di arroganza noi occidentali ci consideriamo i detentori di una cultura classica che affonda le sue radici nella Magna Grecia dove valori come lo sport e il teatro andavano oltre ogni divisione campanilistica. Durante le Olimpiadi si fermavano le guerre: oggi succede quasi il contrario a cominciare dal massacro di Monaco di Baviera nel 1972 dove furono uccisi 11 atleti israeliani (due nel momento dell’irruzione e 9 in seguito allo sfortunato tentativo della polizia tedesca di liberarli). Il sentimento più comune all’epoca era l’incomprensibilità di prendersela con giovani atleti che nulla avevano a che fare con qualcosa che non fosse lo sport. Il problema si ripresenta ora dove sportivi e artisti non possono partecipare a manifestazioni perché antipatici alla parte avversa, facendo venir meno valori storici che caratterizzavano l’Occidente. La scusa che certi atleti o certi artisti rappresentano una realtà da cui devono dissociarsi è una violenza su quelle persone, mentre si ignorano massacri brutali portati avanti in più parti del mondo, ma che proprio l’Occidente e una parte dei media ignora o cita in alcuni elenchi per desiderio di pluralismo.

Perché certi massacri vengono ignorati e altri riscuotono così tanta attenzione è un sintomo di quell’incapacità dell’Occidente d’identificare dei valori universali, in primis la libertà e la democrazia, e cercare di portarli avanti a prescindere dagli interessi contingenti.

Rilegati ai margini della storia noi europei sembriamo sempre più i polli di Renzo, di manzoniana memoria, che si beccano continuamente per cercare un po’ di visibilità (sempre pronti a condannare la violenza altrui, ma impotenti nel gestire la brutalità di un genitore che, a Collegno, picchia un adolescente della squadra avversa, ma lo stesso adolescente viene squalificato dalla Federcalcio...) anziché cercare di migliorarsi sotto tutti i profili a cominciare dall’autosufficienza economico-energetica a quello culturale, dove le nostre Università devono sempre più accettare il confronto con realtà nuove, da cui si possono però trovare forme sinergiche per contrastare fanatismi e integralismi che sono il substrato della crescita dell’odio tra i popoli.

 

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