Dazi e sanzioni: l’economia asservita alla demagogia
- Emanuele Davide Ruffino
- 20 lug
- Tempo di lettura: 5 min
di Emanuele Davide Ruffino

Che non dev’essere solo l’economia a governare il mondo è un’affermazione tanto precettistica quanto inapplicata, ma in questa fase storica si assiste a un uso dell’economia non più asservita alla politica (la più nobile delle arti perché le riassume tutte quante e le proietta verso il futuro) ma assoggettata a guadagnare qualche punto di percentuale nei sondaggi.
Nell’immediato, i dazi sembrano aiutare le industrie locali (ma non favoriscono l’innovazione) e le sanzioni rappresentano un segnale impartito a seguito di obbrobri compiuti dai governi di alcuni stati (ma non delineano quale sarà il futuro della convivenza tra i popoli): entrambe però non risolvono i problemi.
Poche idee e nessuna proposta
Stiamo sicuramente attraversando una fase di crisi economica, o più esattamente, una fase di ridefinizione delle regole per gestire i rapporti internazionali: i dazi venivano invocati in Italia pochi mesi fa per difendere le produzioni nazionali dall’aggressività di economie emergenti incuranti del rispetto dei diritti umani (che giunge anche allo sfruttamento dei bambini e a forme irreparabili d’inquinamento) e le sanzioni erano efficaci se colpivano economie deboli (ma senza penalizzare le imprese nostrane che facilmente riuscivano a triangolare le loro esportazioni). Ora però si vogliono colpire economie destinate a diventare più grandi e le sanzioni rischiano di diventare una flebile giustificazione per quietare le nostre coscienze.
La realtà odierna propone degli scenari da cui non si può prescindere: ora dazi e sanzioni l'impongono gli altri (da soggetti attivi stiamo diventando vittime e non sappiamo, nei fatti, come reagire). Scorrendo i giornali dei Paesi occidentali, si osserva come le misure proposte servano ai Governi per giustificare le loro azioni tattiche e alle opposizioni per attaccare le maggioranze accusandole di adottare misure insufficienti. Ma sul cosa fare contro gli stati canaglia o come gestire i commerci internazionali sono poche le idee e nessuna proposte. I mass media ci propongono le immagini del dittatore nordcoreano sul suo elegante yacht decidere quante migliaia di soldati mandare sul fronte ucraino o rilevano come i nostri mercati siano costantemente invasi da prodotti delle imprese cinesi super-sovvenzionate dal loro governo o Trump che per far fronte al mega-deficit USA (ad onor del vero, non creato da lui, ma da quelli che oggi lo criticano) pensa di farlo ripagare agli altri (soluzione gradita al suo elettorato, ma poco strategica).
Di fronte ad una crisi, la risposta istintiva è quella di cercare un colpevole: secondo alcuni è tutta colpa dell’Europa, dell’Economia di mercato, degli Ebrei etc. Risposte già proposte in passato, a forte emotività, ma non proprio razionali e nefaste nelle conseguenze.
Aristotele ci aveva insegnato che “Per vivere da soli si deve essere una bestia, o un dio o un filosofo, ma l’uomo è tutt’altro, egli è per natura un animale politico”. Le cronache quotidiane rilevano come alcuni appartenenti alla nostra specie sono bestie, moltissimi credono di essere dei filosofi o degli Dei, pochissimi si cimentano nell’arte della politica, intesa quale capacità di vivere insieme ad altri in forme sinergiche, atteggiamento che dovrebbe essere condiviso e coltivato da ognuno soggetto (sia esso individuo o stato).
Occorre tornare a percepire come il bene individuale sia interconnesso con il bene comune attraverso il logos (quale capacità di ricostruire relazioni sociali, favorendo l’importanza del dialogo quale strumento per raggiungere la verità, il possibile e il giusto), l’ethos (quale capacità morale di “fare politica” tramite responsabilità e volontà di costruire il proprio futuro) e il pathos (quale capacità di suscitare speranze).
Il richiamo alle tre classiche componenti della “retorica” aiuta a superare la crisi (intesa nel suo significato etimologico d’inclinamento al cambiamento) da cui ci sentiamo oppressi e ad attribuire alla politica il suo significato originario.
Sanzioni demagogiche e contrabbandi
Dall’overdose di sanzioni (siamo al 18° pacchetto contro la Russia, ma se facessimo un’indagine pochissimi saprebbero precisare che cosa abbiamo sanzionato) e di polemiche sui dazi di cui siamo stati vittime in questi ultimi tempi, bisognerebbe passare all’analisi e alle formulazioni di visioni generali che permettano di affrontare efficacemente la situazione. Le sanzioni sono facilmente eludibili, come dimostra l’esperienza italiana dopo la conquista dell’Etiopia (quella più significativa sembra essere stata l’aver sostituito il te con il karkadè) ed è palese come, fino ad oggi, il petrolio russo sia viaggiato pressoché indisturbato su 400 navi fantasma già individuate (il recente pacchetto di sanzioni mira proprio a colpire questi raggiri) o viene venduto a paesi non soggetti a sanzioni che poi lo rivendono a noi (con un piccolo sovrapprezzo, ovviamente) e così le sanzioni possono essere superate, almeno in parte, con partnership e acquisizioni di aziende locali da parte di aziende sovranazionali in grado di trasferire utili e valori da un paese all’altro.
Commisurare dazi e sanzioni però permette di non far sentire inoperosi gli attuali governi. Il problema delle sanzioni deve fare i conti con la nostra volontà di difendere i valori etici fondanti l’occidente (molto rivendicati a parole, un po’ meno nei fatti: sembra di essere tornati alle scomuniche, ma dovremmo anche ricordarci che cosa ne fece Martin Lutero), mentre il problema dei dazi si colloca nel definire le regole del mercato e della concorrenza, di cui i dazi sono solo una delle tante componenti in gioco, ma delle altre praticamente non se ne parla.
A leggere i fatti di questi ultimi anni emerge una profonda visione egoistica che porta a ritenere corretto imporre dazi su tutte le merci che non consumiamo noi (o crediamo di non consumare) pensando che avere fonti energetiche sia un “diritto” e non la conseguenza di accordi commerciali e, ancor prima, di politiche economiche efficaci e perseguite con determinazione. I dazi sono solo uno dei tasselli che regolano il mercato globale: svalutazione della moneta, tecniche di produzione (sempre più incentrata sui servizi che non sull’assemblamento di materie prime), immigrazione della mano d’opera (sia quella qualificata che quella indifferenziata), appesantimenti burocratici (che ormai sta diventando il costo più elevato e l’impedimento principale per chi vuole fare impresa in occidente: meno pressante nella Cina comunista!), attenzione alla sostenibilità ambientale (fattore per cui i prodotti che noi consumiamo sono prodotti laddove è più tollerato l’inquinamento, acquietando la nostra coscienza ecologica, per non parlare dei traffici di organi), blocco di alcune vie di comunicazione, dazi interni solo per citare i principali.
Non avendo il coraggio di affrontare i problemi reali come il rispetto dei diritti umani e l’autodeterminazione dei popoli o costruire un mondo economicamente libero dove tutti possono sviluppare le proprie potenzialità senza troppi vincoli artificiosamente creati, ma rispettando principi etici, si preferisce dibattere sulle regole burocratiche su come commisurare sanzioni o sulle aliquote dei dazi o su come richiedere contributi per poterne ridurre l’impatto e altre misure effimere, finché la storia non ci spazzerà via.













































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