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Viaggio nell'Italia insolita e misteriosa

Il Sacro Monte di Varallo Sesia una gita tra il sacro e lo stupore


di Ivano Barbiero  


Chiusa la parentesi "esterofila" attraverso i viaggi alla scoperta delle cittadine inglesi dal fascino internazionale, in primis Brighton, e dei villaggi Cotswolds [1], Ivano Barbiero rientra in Italia, lasciata alle spalle il 12 aprile scorso con le cartoline da Rimini e i ricordi del maestro Federico Fellini [2]. Per la ripartenza, il nostro infaticabile viaggiatore ha scelto la sua regione d'adozione, il Piemonte, e un luogo in cui la spiritualità incontra l'arte: il Sacro Monte di Varallo Sesia.


Un luogo curioso e affascinante, creato più di 500 anni e che per alcuni aspetti li dimostra tutti. È il Sacro Monte di Varallo, patrimonio dell’UNESCO, che rappresenta l’esempio più antico e di maggior interesse artistico tra i Sacri Monti presenti nell’area alpina lombardo-piemontese. In questo ampio spazio troviamo una basilica e un percorso, o volendo più percorsi che si snodano su vari livelli della collina, simboleggiando il cammino spirituale e la passione di Cristo. Questo luogo si trova a un'altitudine di circa 600 metri sul livello del mare, e il dislivello complessivo può variare, ma si stima che sia intorno ai 100-150 metri, considerando le salite e le discese che passano tra vie, piazzette e viali alberati di faggi e conifere. In tutto si visitano quarantacinque cappelle affrescate e popolate da circa 800 statue in terracotta policroma o legno a grandezza naturale. In media, si può stimare un tempo di circa 2-3 ore per completare l'intero percorso, considerando una visita abbastanza approfondita.

Se si tiene anche conto che si è immersi in un paesaggio montano che offre panorami mozzafiato della Valsesia e delle Alpi, il semplice visitatore ha una sensazione di fondo strana e contrastante: a tratti vien da pensare di trovarsi in un cimitero senza tempo o in un luogo volutamente surreale e destinato a stupire a tutti i costi.


Tutto prende forma da un francescano

L’ideatore di questo grande spettacolo fu fra’ Bernardino Caimi, un francescano dei Minori Osservanti vissuto per molto tempo a Gerusalemme e che era stato custode del Santo Sepolcro. Verso la metà XV secolo aveva cominciato a diffondersi, in Occidente, un forte bisogno di riprodurre i luoghi della Terra Santa, verso la quale il pellegrinaggio stava diventando sempre più pericoloso a causa dei Turchi. Il francescano pensò così di ricostruire in Italia i luoghi in cui era vissuto, morto e risorto Gesù. Nel 1481 ebbe in dono questo monte dal Comune di Varallo e dal nobile Milano Scarognini, figura di spicco della Valsesia nel tardo Quattrocento, proprietario terriero, mercante e banchiere. Ottenuti i permessi da Papa Innocenzo VIII, il religioso fece un ultimo viaggio a Gerusalemme e al ritorno portò i seguenti materiali: “Un pezzo di roccia del Santo Sepolcro, un frammento della colonna della flagellazione, un facsimile dell’impronta lasciata da Gesù sul Monte degli Ulivi, una croce fatta con rami degli ulivi dell’Orto del Getsemani, una statua della Madonna già venerata a Santa Sofia di Costantinopoli, prima della conquista musulmana”.

Dopodiché, nel 1486, contando su importanti donazioni - anche in virtù dei buoni rapporti con Ludovico il Moro -, Padre Caimi poté vedere l'inizio dell'edificazione della chiesa di Santa Maria delle Grazie, annessa al convento francescano, e quella delle prime cappelle del Sacro Monte. Via via, all’interno delle varie cappelle vennero poste immagini, sculture policrome e pitture per ricordare i corrispondenti eventi della storia di Gesù; ad esempio, nell’Annunciazione la figura dell’Arcangelo Gabriele e della Madonna. Alla base del progetto del religioso vi era, dunque, il desiderio di riprodurre, a beneficio dei fedeli, non più la sola Basilica della Resurrezione, ma tutti i luoghi più emblematici della Terra Santa. Il luogo doveva rappresentare un'autentica alternativa al pellegrinaggio; di qui l'espressione Nuova Gerusalemme, successivamente impiegata per identificare il Sacro Monte di Varallo.



I suggerimenti di San Carlo Borromeo

In un primo tempo, sotto la direzione di Bernardino Caimi, in questo luogo posizionato su una parete rocciosa che domina l'abitato di Varallo, si illustrarono solo la passione e la morte di Gesù e la dormizione e l’assunzione della Madonna. Poi, su suggerimento di San Carlo Borromeo, si ampliò il tema con la storia dell’umanità, compreso il peccato originale e la redenzione. L’ultima cappella, che doveva illustrare il Paradiso, fu trasformata nella grande basilica-santuario. La Scala Santa (che conduce a un’ampia galleria, attribuita a Pellegrino Tibaldi) riproduce fedelmente lo scalone che dava accesso al Palazzo di Pilato e chi lo sale, recitando un Pater e un’Ave per ogni gradino, ha un’indulgenza di cinque anni.

Nel 1491 risultavano terminate le cappelle del Santo Sepolcro, dell’Ascensione, della Deposizione. La morte di Padre Caimi (1498 o 1499) non arrestò il programma di edificazione, soprattutto vista la notorietà che il Sacro Monte iniziava ad avere come meta di pellegrinaggi devozionali e l'approvazione ricevuta dal Ducato di Milano. Nel XVI secolo, Gaudenzio Ferrari (pittore, scultore e architetto valsesiano) fu il principale artefice dello sviluppo del Sacro Monte di Varallo, realizzando cappelle, sculture in legno e terracotta, e affreschi. Lasciò un’impronta artistica che influenzò le generazioni successive. Dopo la sua partenza (1528), il Sacro Monte attirò pellegrini illustri (come sant’Angela Merici e Francesco II Sforza) e altri artisti, tra cui allievi di Gaudenzio e maestri come Giacomo Paracca e i Fiammenghini.



Il "gran teatro montano", secondo Giovanni Testori

Tra il 1565 e il 1568, l’architetto Galeazzo Alessi riorganizzò le cappelle in ordine cronologico (seguendo la vita di Gesù) anziché topografico. Nella seconda metà del Cinquecento, san Carlo Borromeo contribuì a elevare il prestigio del luogo con le sue visite, mentre i Savoia (a partire da Carlo Emanuele I nel 1583) mostrarono grande interesse. Nel XVII secolo, il vescovo Carlo Bascapè riprese i lavori, aggiungendo cappelle sulla Passione di Cristo con artisti come Tabacchetti, Morazzone e Giovanni D’Enrico (scultore) assieme ai fratelli Melchiorre e Antonio (pittori).

Tra le ultime opere significative ci furono il Palazzo di Pilato con la Scala Santa e la Basilica dell’Assunta (iniziata nel 1614 e completata nel 1713), che seguiva il progetto urbanistico di Alessi per la parte sommitale del monte. Il Sacro Monte divenne così un grandioso complesso artistico e religioso, frutto di secoli di lavoro e devozione. Chi più di altri ha contribuito ad affermare il valore del Sacro Monte - divenuto per lui oggetto di un innamoramento artistico che è durato per tutta la sua vita - è stato lo scrittore, drammaturgo e critico d'arte Giovanni Testori. A lui il Comune di Varallo ha voluto dedicare una piazza all'inizio del percorso che porta alle cappelle. Sua è l'espressione “gran teatro montano” utilizzata per connotare l’intero complesso e l'effetto scenico delle cappelle. Difatti, ognuna di queste meriterebbe un breve cenno per qualche curiosità. Alcune sono note per l’uso di figure a grandezza naturale e di scene "viventi", in cui si ricrea un'ambientazione tridimensionale, aumentando l’effetto di realismo e coinvolgimento dei fedeli.



L'effetto scenico delle cappelle

La prima è dedicata ad “Adamo ed Eva, il Peccato Originale”) e vede lei più nuda del solito, ardita nei tempi della Controriforma, quando di solito la si copriva “impallandola”, come si usa dire nel gergo cinematografico, con rami, frasche e animaletti. Notevole anche il bestiario in primo piano, sovrabbondante e ricco di particolari curiosi, come il serpente che ha la testa un po’ di lupo e un po’ di cinghiale. Si narra che durante la sua costruzione, un artigiano abbia avuto un incidente misterioso, cadendo dall'impalcatura senza riportare ferite. Questo episodio fu interpretato come un segno divino di protezione.

Interessante anche la quarta cappella, (“Il primo sogno di San Giuseppe”) per l’insolito atteggiamento, così spiegato nella guida ufficiale del Sacro Monte: “S. Giuseppe, lo sposo vergine di Maria, è nell’angoscia, perché avverte che essa sta per diventare madre. Un angelo del Signore, gli appare in sogno e lo tranquillizza, dicendogli che quanto sta accadendo è opera di Dio. S. Giuseppe sarà lo sposo vergine di Maria e il premuroso custode di Gesù”.

La cappella della “Natività”, la numero sei, è anch’essa famosa per la sua atmosfera intima e raccolta. Si dice che durante una notte di lavoro, gli artisti abbiano sentito canti angelici provenire dalla cappella, ispirandoli a creare una delle scene più commoventi del Sacro Monte.


La cappella dell'Ultima Cena”, la numero 20, è invece nota per la sua attenzione ai dettagli. Si dice che gli artisti abbiano modellato le espressioni dei volti degli apostoli basandosi su persone reali della comunità, creando un effetto di familiarità e realismo.

La cappella “Gesù sveglia i discepoli dormienti”, in origine era situata alle pendici del monte Tabor e traslocata qui nel 1863. Le quattro statue in terracotta di Giovanni D’Enrico sono modellate ad imitazione dell’analogo gruppo affrescato nel 1513, da Gaudenzio Ferrari, sulla parete di Santa Maria delle Grazie a Varallo.

La cappella numero 36, “La salita al Calvario” fu finanziata dalla Marchesa di Masserano. Tutte le 64 statue sono opera dello scultore fiammingo Jean de Wespin, detto il Tabacchetti (1599-1602); gli affreschi alle pareti sono invece del pittore lombardo Pier Francesco Mazzucchetti, detto il Morazzone. (1602-1607 circa). Alcuni personaggi, come i soldati romani, sono resi con tratti caricaturali quasi grotteschi, il che rompe con la solennità religiosa e mostra una certa vena satirica del realismo barocco. Inoltre, alcune figure di soldati e astanti sembrano indossare abiti seicenteschi lombardi più che costumi del tempo di Gesù.



L'arte pilota di Gaudenzio Ferrari

Altrettanto impressionante è la cappella della Crocifissione, la numero 38, impressionante per il suo realismo drammatico. Si dice che gli artisti abbiano studiato cadaveri per rendere le figure di Cristo e dei ladroni il più possibile verosimili. Questo approccio, considerato macabro all'epoca, ha suscitato non poche polemiche. Il fuoriuscire dalle pareti di figure scolpite denota la volontà di compenetrare spazio reale e spazio dipinto.  Il principio scenico ideato da Gaudenzio Ferrari di affidare ruolo di astanti, di spettatori agli affreschi e di attori recitanti il dramma alle sculture, divenne esemplare per tutti i successivi allestimenti delle cappelle.

Quella dedicata alla “Deposizione dalla Croce”, la numero 39, è una delle più emotivamente intense; si narra che durante la sua realizzazione, un artista abbia pianto così tanto mentre scolpiva il corpo di Cristo, che le sue lacrime si siano mescolate all'argilla, creando un effetto unico sulla superficie della statua. Particolare curioso è la statua del vecchietto in abiti valsesiani con la cassetta dei ferri, forse ritratto di un benefattore della cappella. Anche il Cristo è scolpito in modo così realistico da sembrare un corpo vero. Si nota una grande attenzione al dolore umano, con dettagli che rasentano il macabro, come le ferite e il volto contratto di Gesù. Gli affreschi sono di Melchiorre Gherardini detto il Ceranino (1641).

La cappella numero 40, “La Pietà”, risale all’ultimo decennio del 1400 e conteneva l’antico gruppo ligneo del “Cristo al Calvario”, attribuito a Gaudenzio Ferrari, che nel 1638 fu trasportato nell’attuale cappella della “Salita al pretorio” (numero 32). Successivamente Giovanni d’Enrico scolpì per questa cappella le undici statue della Pietà (1635-1640. Gli affreschi risalgono al primo decennio del 1500 e vengono tradizionalmente attribuiti a Gaudenzio Ferrari.


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