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Una "explĭcātĭo terminorum" per la legge sul fine-vita

di Guido Tallone


In attesa che la questione fine-vita venga definitivamente (e finalmente!) affrontata a livello legislativo,[1] credo importante provare a chiarire il lessico che dovrà aiutarci a discutere su questa complessa vicenda da significativi risvolti sociali, etici, giuridici ed esistenziali. I medioevali la chiamavano "explicatio terminorum" e serviva a spiegare i termini e a scegliere con cura le parole utili al dibattito.

Facciamo un passo indietro (corto) e partiamo dal messaggio che la Presidente del Consiglio Giorgia Meloni ha inviato al “Festival dell’umano tutto intero” in cui esorta a «difendere e custodire la vita che è sacra» senza «manipolarla o sentirsene padrone» e proviamo ad analizzare i termini da lei utilizzati.


Le tre dimensioni della vita

Quando si afferma che la vita è “sacra” si utilizza una formula ad alto impatto emotivo in virtù del suo aggancio a forme di religiosità diffuse. Di fatto – però – l’espressione è del tutto inutile dal punto di vista giuridico e filosofico ed è persino nociva dal punto di vista culturale e del dialogo. Per diverse ragioni. La prima: perché la vita umana – come dicono i filosofi – ha almeno tre dimensioni: quella biologica (la realtà del mio corpo), quella coscienziale (che capisce e comprende le leggi del mondo) e quella esistenziale (che assomma le altre dimensioni della vita e comprende l’esistenza come autocoscienza personale unica e irripetibile: l’io che “sente” la vita e “tutta la mia vita”).

Sacralizzare la dimensione biologica del vivere e permettere che questo livello dell’esistenza “cannibalizzi” gli altri strati è un “riduzionismo” inaccettabile dal punto di vista della ragione. Lo sappiamo: nel “pensiero” non si trovano molecole proteiche e nessun chimico troverà mai un atto cosciente al microscopio. A conferma del fatto che il mistero della persona umana trascende tanto il solo dato biologico quanto la più o meno lucida percezione di esistere.

Ma se con la sintesi “la vita umana è sacra” si intende ribadire che l’esistenza dell’uomo è “intoccabile” e “inviolabile”, allora dobbiamo intenderci sui termini. Anche perché quando il corpo umano è colpito dal male, dal dolore, dal soffrire e dall’avvicinarsi della morte è dovere della medicina fare tutto il possibile per fermare l’avanzare della malattia. Ed è compito di farmaci, medici e interventi chirurgici intervenire fisicamente sul corpo umano per curarlo e per liberarlo dal male fisico e, quando si può, persino dalla morte. Ed eccoci nel cuore dell’analisi: con gli slogan ideologici – l’appello general generico alla sacralità della vita – non facilita il dialogo e – elemento persino più grave – si illude di ancorare l’inviolabilità della vita personale ad un principio fragile e razionale quando è vero l’esatto contrario.

I deboli come i forti, i ricchi come i poveri, i miseri come gli splendidi diventano “inviolabili” non in base ad appelli retorici di natura ideologica (“la vita è sacra”), ma se percepiti, riconosciuti, incontrati e “visti” con gli occhi del cuore. Se accolti come persone e come “volti” – come ci ha insegnato il filosofo E. Levinas – che bussano alla nostra coscienza per definire il chi siamo e per dirci che la nostra verità è data dal coraggio e dalla disponibilità di accogliere l’Altro.


La sacralità della vita è sempre

Il linguaggio, però, non fa sconti. Mai. Se la vita umana è “sacra”, lo è sempre. Senza eccezioni. Ed è “sacra” anche quando si creano detenzioni disumane (quanta sofferenza generano le immagini di detenuti privati della dignità, denudati, incatenati e/o pesantemente torturati come numerose Agenzie internazionali denunciano e documentano); quando scelte politiche determinano deportazioni di esseri umani trattati come animali per il solo fatto di essere “immigrati”; quando si lasciano morire in mare immigrati “colpevoli” di fuggire da fame, miseria e guerre; quando si omette di intervenire pur conoscendo il tragico fenomeno del sovraffollamento carcerario – in Italia! – che nega lo spazio vitale che spetta ad ogni detenuto; quando si investe sulla guerra e non sulla diplomazia. Affamare la popolazione di Gaza e permettere che bambini, donne, anziani e cittadini palestinesi muoiano di fame (!), non è un vero e proprio attentato alla vita umana di un intero popolo? E perché il tutto avviene nel più assordante silenzio di chi invoca la “sacralità della vita” solo in alcuni e specifici dibattiti (e non in altri contesti)?

Prima di essere “sacra” la vita umana è un mistero e una sfida che interroga la ragione umana – e i sistemi legislativi delle nostre democrazie – sul “come” riconoscerla “inviolabile” non solo nella sua condizione fisica (quando è calpestata e negata per ingiustizie e per le palesi negazioni dei diritti fondamentali), ma anche nel suo aspetto esistenziale: quando il soggetto – libero e cosciente – chiede il rispetto della sua dignità e della sua libertà (“inviolabile”) per morire con dignità, con gli aiuti di cui necessita e, possibilmente, non da solo.

«Chi è chiamato a ricoprire incarichi politici e istituzionali» sulla questione del fine vita deve farlo al di fuori dalla «sterile ideologia», ha dichiarato la Presidente del Consiglio. Ma, perché, questo avvenga si deve iniziare dal pulire il linguaggio per liberarlo dalle sovrastrutture ideologiche che imbrigliano il dibattito per chiuderlo in fortini impermeabili al dialogo, all’incontro e – di fatto – alla reale soluzione dei problemi dei cittadini.


Evitiamo la Teologia superata e confusionaria

Da non dimenticare il richiamo alla “sacralità della vita” serve anche per introdurre un ulteriore assioma teologico decisamente superato: quello del Dio creatore che è anche l’unico “padrone” della vita stessa. “Dio è il creatore della vita; solo Lui è il “padrone” della vita umana e solo Lui può toglierla”, si diceva un tempo. Ripeterlo oggi coincide con il “chiudere” il dibattito invocando, invano, il nome di Dio e utilizzando un linguaggio che non fa altro che aumentare la confusione. Da un lato perché lo Stato laico deve legiferare senza argomentare le sue scelte con ambigue e precarie espressioni provenienti da una teologia superata. E poi perché “padrone” è titolo di proprietà riferito a cose o animali ed è del tutto inadeguato per descrivere la relazione tra Dio e la creatura umana. È antipatico persino tra gli umani un dono con precisi vincoli nell’utilizzo dell’oggetto regalato. Figuriamoci se applichiamo tale paradigma al Dio creatore e lo chiudiamo in schemi avari e segnati dal possesso che caratterizzano la fragilità del cuore umano, ma non la sua onnipotente bontà.

Dobbiamo perciò affermare che Dio non è il “padrone” della nostra vita e non è in concorrenza con le nostre scelte. Per il credente nel Dio di Gesù il dono della vita è pieno, completo e totale. E va inteso come un compito per umanizzare il più possibile il mondo, la vita e anche la morte di ciascuno. Niente di più e niente di meno. 

Andiamo avanti con la nostra explicatio terminorum: non possiamo nemmeno affermare che la vita umana è un “valore” che appartiene alla sfera etica. La vita umana è molto di più: è il bene fondamentale che permette – ad ogni essere umano – di interiorizzare la scala di valori che fonda il suo essere personale e il suo vivere immerso nella sua comunità e nel mondo. Ma perché non è corretto considerare la vita umana un “valore” da incasellare accanto ad altri valori (libertà, giustizia, onestà, solidarietà, rispetto, diligenza, lealtà, compassione, etc.)? Perché in contesto etico non si può mai creare un “conflitto” tra valori per la semplice ragione che questo creerebbe uno “scontro” paralizzante tra doveri che determinerebbero l’assurda situazione per cui, chi deve agire, in qualunque modo scelga, commette un’azione immorale: contro un dovere. Inaccettabile.


Il dovere di contrastare il dolore

In realtà – e più in profondità – per realizzare i valori della giustizia, della libertà, della solidarietà, della fraternità e/o della Pace la persona può (e a volte deve) sacrificare la sua vita fino a donarla con prudenza, coraggio, radicalità e ponderazione per raggiungere quell’insieme di valori che rendono l’esistenza umana degna di essere vissuta. E se è possibile “dare” la mia vita fisica per il valore di una società più giusta e più libera – si pensi ai tanti martiri della libertà che hanno contribuito ieri ed oggi ad un mondo migliore – questo è il segno che la vita umana è il bene fondamentale della persona che può essere “data”, “donata”, “sacrificata” e “spesa” fino alla morte per realizzare quei valori senza i quali la vita biologica non assume la sua autentica pienezza.

Ancora una riflessione. Nessuna nega l’utilità biologica del dolore incaricato di avvisare il cervello che un evento patogeno sta danneggiando il corpo umano affinché si possano prendere rapidamente le contromisure appropriate. Ciò detto, però, va ribadito che uno dei compiti principali dell’uomo è quello di contrastare, eliminare, ridurre e liberare l’esistenza umana – di chiunque – dal dolore e dalla sofferenza. E qualunque scelta legislativa deve andare nella direzione del contribuire a ridurre e a eliminare tutta la sofferenza possibile in chi sta male. Sempre. Per tutti. E il più possibile a spese della collettività come servizio pubblico gratuito per chi soffre. Impantanarsi in apologie del dolore e del soffrire è sempre molto pericoloso; inutile; dannoso e decisamente poco umano (e, per i credenti, anche poco cristiano). Imparare a togliere il dolore a chi è disposto anche a chiedere la morte pur di non sopportare più una sofferenza che calpesta e abbruttisce la dignità umana, è stata una grande conquista dell’umanità e della medicina.


I rischi di uno scontro ideologico

Oggi però lo scenario ci pone nuove domande alle quali siamo chiamati a rispondere. La sentenza della Corte Costituzionale del 2019 ha riconosciuto che l’evoluzione delle scienze bio-mediche ha trasformato radicalmente le circostanze in cui oggi avviene la morte. Al punto che non è punibile chi agevola l’esecuzione del suicidio di una persona che:

·        dipende da trattamenti di sostegno vitale,

·        è affetto da una patologia irreversibile,

·        denuncia sofferenze fisiche o psicologiche intollerabili

·        ed è capace di prendere decisioni.

La sentenza chiede però al Parlamento di intervenire con una Legge ed è a questa scadenza che, forse e decisamente in ritardo, stiamo arrivando. Fare in modo che il dibattito che prepara la legislazione in materia di fine vita non sia uno scontro ideologico tra favorevoli e contrari con rigidi steccati che ricordano le guerre di religione del passato, è una precisa responsabilità di chi governa e del nostro Parlamento. A partire da un lessico liberato da sovrastrutture linguistiche impregnate di categorie antiche e obsolete per entrare – poi – nella riflessione del come riconoscere, ad ogni cittadino e ad ogni persona, il suo diritto alla libertà, alla responsabilità e al disporre di sé stesso anche in fase terminale.

La grande domanda che aleggia su questo dibattito sarà – di conseguenza – quali mediazioni sono possibili, sul piano giuridico, per una ricerca del bene comune in una società democratica all’interno della quale molti invocano il diritto di scegliere come morire? Come fare affinché laici e credenti riescano ad incontrarsi per costruire – insieme – una legge in una società pluralista e democratica sul fine vita che sia rispettosa di tutte le libertà in gioco e che non debba gravare sulle tasche dei contribuenti? Quale grigio è accettabile nel liberare chi soffre in modo irreversibile, lucido e permanente da un vivere che ha perso il senso e il sapore della vita?

Sporcarsi le mani con queste domande, significa aprire la società a derive che negano il senso del vivere e che offendono la dignità di chi è più debole e indifeso? Credo proprio di no. Al massimo obbliga la nostra società e il nostro sistema sanitario nazionale a creare le condizioni affinché in tanti contesti territoriali del nostro Paese non manchino quelle cure palliative gratuite che alleviano dolore e sofferenza da una parte e che migliorano le relazioni affettive, umane e famigliari dall’altra parte.

Traguardo ancora lontano e, purtroppo, finora non raggiunto.


Nota

[1] Cfr. Avvenire, Fine vita, c'è una bozza per la legge. Escluso il "diritto a morire" : "Ci siamo. Quasi. Martedì prossimo il Comitato ristretto insediato a Palazzo Madama discuterà una prima bozza della nuova legge sul fine vita (la terza in Italia dopo quelle sulle cure palliative del 2010 e sul biotestamento del 2017), per poi sottoporla alle Commissioni riunite Giustizia e Affari sociali del Senato, che gli hanno delegato questa prima, complicata fase. Di qui, a passo spedito, si andrà poi in aula il 17 luglio, come annunciato dalla maggioranza".

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