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Un libro per voi: memoria di un Paese che non c'è più, la Jugoslavia  

di Marco Travaglini


Con un mondo colpito dai massacri in Rwanda, scatenati dalla minoranza Tutsi decisa a conquistare la capitale Kigali e il potere, si realizzavano quasi nel silenzio in quei giorni d'aprile di trent'anni fa le trame decisive che avrebbero portato alla dissoluzione della Jugoslavia, la cui guerra intestina era cominciata tre anni prima. Nel marzo del 1994, vi erano stati i colloqui di pace in Bosnia Erzegovina. Colloqui farsa, come avrebbe dimostrato la storia, sui quali il presidente croato Tuđman e il presidente serbo Milosevic puntavano per spartirsi la Bosnia, preludio al successivo assedio di Sarajevo. Due recenti libri riportano alla memoria quegli eventi.


Di dove sei? Della Jugoslavia. È un paese che esiste? No, ma io vengo da lì”. Un dialogo breve e asciutto, mirabilmente sintetizzato dalla scrittrice croata Dubravka Ugreši ne La confisca della memoria svela molto bene il dramma della dissoluzione di quello che era il paese degli slavi del sud. E Bruno Maran, fotoreporter di Stampa Alternativa, con il libro Dalla Jugoslavia alle Repubbliche indipendenti, pubblicato da Infinito Edizioni, racconta con lucidità e passione la parabola della Jugoslavia. Un paese che dopo la prima guerra mondiale si chiamava Regno dei Serbi, Croati e Sloveni, poi Regno di Jugoslavia e successivamente un’originalissima esperienza socialista e federale per oltre quarant’anni, dal 1945 al 1991.

La Jugoslavia era il frutto unitario composto da sei repubbliche e due  province autonome (nell’ordine: Croazia, Slovenia, Serbia, Montenegro, Bosnia ed Erzegovina, Macedonia, Kosovo, Vojvodina ), formatosi dopo aver attraversato una tremenda guerra di liberazione dagli invasori nazifascisti, che provocò molti lutti e sparse rancori mai sopiti. Il paese venne così delineato da Josip Broz Tito e da Edvard Kardelj, il teorico e costituzionalista sloveno. La “terra degli slavi del sud” si basava sulla politica della Fratellanza e Unità (Bratsvo i Jedinstvo) fra i diversi popoli jugoslavi, garantendo a ciascuno, comprese le minoranze nazionali, dignità, autonomia decisionale e rappresentatività istituzionale.

Tito era infatti riuscito a bilanciare le rappresentanze etniche e a placare antichi odi in un equilibrio che appariva stabile, grazie probabilmente anche al collante dell’ideologia socialista rinnovata in chiave antistalinista e per alcuni versi filo-occidentale. L’originalità del progetto jugoslavo iniziò il suo declino nei primi anni ottanta, con la morte del suo leader. Nel 1991 scoppiò la guerra, che portò nell’Europa di fine Novecento i crimini contro l’umanità, lo stupro etnico, il genocidio, l’urbicidio di Sarajevo e di altre città, la fuga di milioni di profughi, per concludersi con una pace ingessata, cui fece seguito una guerra “umanitaria” in Kosovo e Serbia.

Un modo drammaticamente coerente per chiudere un secolo segnato dalle guerre. “La lettura del lavoro di Maran dimostra come gli eventi tragici verificatisi nei Balcani non affondino le loro ragioni in un atavismo tribale, bensì in “semplici” e fin troppo evidenti scontri tra gruppi di potere interni allo spazio jugoslavo e sostenuti da potenti alleati stranieri”, sottolinea Luca Leone, autore dei più importanti libri sulla Bosnia, aggiungendo come “a restare stritolati, sfregiati, dilaniati alla fine sono sempre i popoli, la giustizia e la verità”.


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