Dietro la violenza di Netanyahu avanza il monito di Hilberg
- Stefano Marengo
- 17 ore fa
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di Stefano Marengo

“Credo che ognuno di noi, se fosse nato in un campo di concentramento e non avesse da cinquant’anni nessuna prospettiva da dare ai figli, sarebbe un terrorista”. A esprimersi in questi termini sulla condizione palestinese fu nientemeno che Giulio Andreotti nel corso di un dibattito al Senato. Correva l’anno 2006. Nel rileggerle a vent’anni di distanza, con il senno del poi, queste parole potrebbero sembrare profetiche, ma la realtà è che esse erano vere già quando furono pronunciate. Oggi, semmai, la verità si sta imponendo con sempre maggiore evidenza anche a coloro che, in tutti questi anni, hanno fatto finta di non vederla.
Ci sarebbe poco altro da aggiungere, se non che gli oppressi che nutrono sentimenti di rivalsa possono essere qualificati come “terroristi” solo da chi li opprime; per chi ha un senso anche minimo della giustizia, invece, l’atteggiamento dei palestinesi è una resistenza necessaria o quantomeno, come scriveva Vice ieri mattina, un modo per “sopportare le crudeltà perpetrate ogni giorno dallo Stato di Israele”.[1]
Le parole sono importanti e puntare i riflettori su Israele in quanto entità statale non è affatto peregrino, senza per questo nascondere quanto è accaduto il 7 ottobre del 2023 e che ha innescato, siamo al 593° giorno, uno scontro asimmetrico, perché non combattuto tra due eserciti equivalenti. È infatti arrivato il momento di riconoscere che genocidio o pulizia etnica - si usi qualunque parola, la sostanza non cambia e con essa il senso della vendetta che esula dalla risposta militare - in atto in Palestina non dipendono unicamente dalla ferocia di Netanyahu e dall’estremismo fascioreligioso del suo governo, ma mettono in questione Israele stesso come nelle sue istituzioni e come società.
Ma per capirlo bisogna andare oltre le semplificazioni interessate e rispolverare la lezione di Raul Hilberg (Vienna, 2 giugno 1926 – Williston, 4 agosto 2007)[2], il più eminente studioso della Shoah, che per tutta la vita non smise di avvertire che per innescare uno sterminio non basta la parola di un capo carismatico e della sua cricca. Ciò che serve, diceva il grande storico, è che questa parola trovi solerte attuazione attraverso gli apparati di stato e la burocrazia pubblica, che possa contare sulla volenterosa complicità o sul silenzioso assenso di strati maggioritari della popolazione e che sia sostenuta, a monte, da un dispositivo ideologico e propagandistico così radicato da coinvolgere lo stesso sistema educativo.
Tutte le immagini che arrivano da Gaza e le dichiarazioni incendiarie che arrivano da Israele illustrano con drammaticità le tesi di Hilberg. Ma anche affermazioni all’apparenza controcorrente dei dirigenti israeliani nascondono spesso un non detto certamente ambiguo. Nelle ultime ore, ad esempio, circolano con insistenza (comprensibile) le parole di Yair Golan, ex generale dell'Idf e leader dell'opposizione di sinistra israeliana: "Un paese sano, ha dichiarato, non combatte i civili e non uccide i bambini per hobby, né si pone come obiettivo espellere totalmente una popolazione. Questo governo mette a repentaglio la nostra stessa esistenza".
Ora, detto che il partito di sinistra di Golan dispone di poco più del 3% dei seggi parlamentari alla Knesset ed è quindi politicamente marginale, c’è da chiedersi quanta credibilità possa avere un’affermazione di questo tenore dopo venti mesi di bombardamenti e distruzioni su e nella Striscia di Gaza. Dove si trovava Golan nell’ultimo anno e mezzo? In realtà le sue parole non esprimono in primo luogo preoccupazione per la sorte del popolo palestinese, ma vogliono essere un monito per la tenuta di Israele. Detto altrimenti: per Golan la distruzione di Gaza è sì insana e sbagliata, ma anzitutto perché “mette a repentaglio” l’esistenza di Israele com’è stato finora. Golan non appare cogliere, a mio avviso, il paradosso di ciò che dice, visto che è stato proprio Israele come progetto colonialista, di occupazione militare e di apartheid ad avere un ruolo nella catastrofe degli ultimi venti mesi.
Se vale la pena soffermarsi sull’approccio di Golan – l’approccio tipico del sionismo liberal – non è certo perché la sua posizione ultraminoritaria abbia effettivamente un peso in Israele, ma perché è la posizione verso la quale sembrano oggi timidamente convergere alcuni paesi europei. Si sarà notato, in proposito, come di recente la narrazione politico-mediatica sia sensibilmente cambiata. Nelle ultime due o tre settimane giornali e televisioni hanno iniziato a pubblicare immagini e testimonianze da Gaza che solo a inizio anno sarebbero state impensabili. Si tratta indubbiamente di un passo avanti, ma non bisogna lasciarsi trarre in inganno. Queste immagini e testimonianze vengono infatti utilizzate per avvalorare un’analisi che identifica in Netanyahu e nel suo governo i soli e unici responsabili della mattanza. Ci si dimentica così, intenzionalmente, la grande lezione di Hilberg e non si va alla radice del problema, ossia la natura intrinsecamente suprematista e oppressiva dell’ideologia sionista che struttura stato e società israeliani e di cui Netanyahu è una conseguenza, non certo l’origine.
Il punto è che l’obiettivo dei paesi che oggi stanno sposando questa linea – forse l’obiettivo dell’intero Occidente, finora silente sull'immane crudeltà ai danni del popolo palestinese – non è quello di curare le cause del disastro, ciò che può avvenire solo mettendo in questione la natura profonda dello stato israeliano, ma di contribuire a rimuovere Netanyahu come suo sintomo più virulento. Inutile aggiungere che, qualora questo accadesse (e se ne può dubitare), la scelta di un primo ministro più presentabile – uno, poniamo, alla Yair Golan – sarebbe solo un modo per guadagnare tempo prima che il conflitto torni a deflagrare.
Al termine della Seconda guerra mondiale il grande filosofo Karl Jaspers scrisse un libretto molto denso per affermare che la responsabilità del cataclisma non poteva essere addossata solo su Hitler e i suoi gerarchi, ma la “questione della colpa” (questo il titolo dell’opera) era un tema con cui l’intera Germania e tutti i tedeschi dovevano per forza misurarsi a livello esistenziale, morale e politico. Allo stesso modo oggi, con la distruzione di Gaza, non esistono scorciatoie: Israele e gli israeliani, così come i paesi occidentali, devono porsi, e non solo formalmente, un’analoga questione della colpa e della responsabilità. È l’unico modo per recidere la radici maligne dell’ingiustizia e poter costruire un mondo in cui per tutti valgano i principi dell’equità e della libertà e mettere al bando gli estremismi di qualunque parte che avvelenano la convivenza pacifica tra i popoli.
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