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Smart working, ora le aziende fanno retromarcia

di Ferruccio Marengo


Il numero di coloro che lavorano da casa si sta assottigliando, almeno nel nostro Paese. Stando ai dati pubblicati dall’Istat, dopo gli anni del Covid, nel corso dei quali il lavoro a casa era arrivato a interessare il 15 per cento della popolazione attiva, il numero di chi lavora dalla propria abitazione è costantemente declinato, fino a scendere, nel 2024, a poco più del 10 per cento (a fronte del 5 per cento del 2018 in fase pre-pandemica). Sembra quindi che il lavoro da casa - una definizione peraltro generica, che mette insieme modalità molto differenti di lavoro, dal semplice telelavoro allo smart working – salutato pochi anni fa come un evento decisivo per affermare un ‘nuovo modo di lavorare’, più libero e gratificante per imprese e lavoratori, si stia rivelando inferiore alle attese a suo tempo formulate (in primo luogo dal settore high-tech).


Influenze negativi sull'organizzazione del lavoro

Oggi sono le stesse imprese a indicare i limiti del lavoro da casa così come è stato sperimentato negli ultimi anni. Pur prescindendo dal fatto che esso non è applicabile, per ovvie ragioni, ai segmenti produttivi nei quali il lavoratore deve intervenire direttamente sull’oggetto in produzione o interagire direttamente con l’acquirente (come nel caso della vendita al dettaglio), molte aziende evidenziano come l’abbandono (o la forte riduzione) del lavoro in presenza influenzi negativamente alcuni processi organizzativi.

In particolare, la dispersione delle attività lavorative avrebbe l’effetto (indesiderato) di attenuare il senso di identificazione dei lavoratori con l’azienda, ridurre la coesione e la collaborazione tra i dipendenti, limitare l’innovazione e la creatività, rallentare l’integrazione dei nuovi assunti, ostacolare l’elaborazione, la diffusione e l’accettazione di valori comuni e, più in generale, di una cultura aziendale condivisa riguardante la missione, gli obiettivi e i principi che regolano le modalità di conduzione dell’azienda stessa.

Sembra quindi che a ridurre l’efficacia del lavoro da casa siano gli effetti che esso genera sui fattori soft, ma non per questo meno importanti, che influenzano le organizzazioni aziendali. Oltre a ciò, molte aziende dichiarano di avere difficoltà a introdurre nuovi sistemi di gestione, riguardanti in particolare il lavoro per obiettivi, con conseguenti limitazioni delle loro capacità di monitorare e controllare le performance dei dipendenti impiegati in remoto, e quindi di tenere sotto controllo variabili strategiche come la produttività, il rispetto delle scadenze e la qualità dei servizi erogati.


Tra "entusiasti" e "scontenti"

Da parte loro, i lavoratori coinvolti nell’esperienza del lavoro da casa sembrano manifestare due orientamenti opposti. Se da un lato si collocano gli ‘entusiasti’, che sottolineano gli elementi di libertà individuale, flessibilità, autonomia e vantaggio economico che tale lavoro assicurerebbe; dall’altro, quello degli ‘scontenti’, emergono annotazioni che sottolineano la condizione di isolamento e di estraniazione dal contesto produttivo, le difficoltà di comunicazione, l’assottigliamento dei confini tra tempo di lavoro e di non lavoro e il rischio di sovra lavoro al quale il lavoro da casa esporrebbe.

È interessante osservare come la scelta di molte aziende di tornare al lavoro in presenza discenda da un limite intrinseco al lavoro da casa, che, mentre da un lato richiede un sovrappiù di procedure impiegate per regolare il lavoro stesso, priva le aziende stesse dei vantaggi della partecipazione diretta e continua dei lavoratori. Si evidenzia così come, al di là delle procedure e delle tecniche utilizzate, l’azione organizzata sia sempre l’esito delle interazioni sociali interne ed esterne che interessano l’organizzazione. Ogni azienda è anche e soprattutto un sistema sociale dotato di attori, confini, obiettivi, modalità d’azione, rapporti di potere e regole che concorrono a formarne la ‘cultura’.

Il problema della partecipazione alle decisioni

Quest’ultima, a sua volta, è sottoposta a costanti aggiustamenti, sollecitati dalla variabilità dell’ambiente esterno e degli assetti interni, e ciò avviene attraverso una moltitudine di processi aziendali, il più delle volte informali, che molto difficilmente possono essere condotti senza la presenza dei lavoratori. In quanto esito di attività e interazioni umane sempre in divenire, le organizzazioni aziendali non possono essere assimilate a modelli procedurali rigidi, riconducibili ad algoritmi più o meno complessi, senza che ne sia ridotta oltre misura l’efficacia e la capacità di adattamento.

L’idea dell’organizzazione come ‘macchina’, che prescinde dalla variabilità della sua dimensione sociale e dai suoi equilibri interni è alla base di una concezione burocratica che, dietro una razionalità apparente, è del tutto inadeguata a governare processi complessi. Da qui la necessità di spostare l’attenzione dalle procedure agli attori, che, con la loro azione in presenza, danno alle aziende una ‘anima’ e adeguate capacità di adattamento e competizione.           

Dal punto di vista del lavoratore, l’idea dell’azienda come ‘macchina’ genera necessariamente sentimenti di estraniazione e impotenza, che non possono essere mitigati con tecniche e tecnologie più efficaci di comunicazione: non si tratta, in questo caso, di migliorare la comunicazione, ma di ridefinirne i contenuti e, con essi, il grado di partecipazione che il lavoratore può esercitare all’interno dei processi decisionali. Quando questo non avviene l’estraniazione non può che trasformarsi in uno stato di alienazione, nel quale il lavoratore si (auto)riduce a strumento e il lavoro diventa per lui la ‘sofferenza’ necessaria per ottenere di che vivere. In questo scenario, ogni possibilità di fuga, di allontanamento dal lavoro è desiderabile, anche quando questa fuga è rappresentata dalla possibilità di rinviare di qualche minuto l’accensione del computer di casa.            

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