top of page

Un libro per voi: "Le piazze vuote. Ritrovare gli spazi della politica"

di Ferruccio Marengo

 


Quante opportunità di cittadinanza ci offre, oggi, lo spazio pubblico? Quante occasioni abbiamo di sperimentarci, insieme con altri, in azioni dove le nostre necessità trovano soluzioni che chiamano in causa gli assetti sociali più generali e i bisogni degli altri? Sono queste le domande dalle quali traggono spunto le riflessioni che Filippo Barbera offre ai lettori nel suo ultimo libro (Le piazze vuote. Ritrovare gli spazi della politica, Laterza, 2023). Domande accompagnate da un giudizio negativo su un presente nel quale gli spazi pubblici – terzi rispetto a quelli della famiglia e del lavoro – si sono inequivocabilmente ridotti, sia che con essi s’intendano gli spazi fisici, d’incontro faccia a faccia; sia che ci si richiami alle infrastrutture sociali che favoriscono le relazioni d’aiuto reciproco e la generazione di beni  non economici ma essenziali, come il riconoscimento, il rispetto, la fiducia, il senso di appartenenza, la possibilità di ‘dire la propria’ e di influire sulle scelte che investono la comunità. Ciò ha generato ‘patologie sociali’ quotidiane che si manifestano attraverso la chiusura nel privato, il declino della fiducia nell’altro e nelle istituzioni e il tendenziale abbandono delle forme di partecipazione civica. Si è così generato - scrive Barbera – un grave danno per l’intera collettività, perché con esse si è indebolita la capacità di cogliere i legami sociali come ‘valore in sé’, di elaborare giudizi condivisi e, con ciò, superare quella dimensione del privato che ci spinge a leggere le relazioni sociali in chiave strumentale (propria del mercato) e ad attribuire ad esse valore soltanto nella misura in cui producono valore per il sé.

Il superamento delle patologie sociali che oggi ci affliggono richiede dunque la ricostituzione di luoghi e infrastrutture sociali d’incontro, nei quali la dimensione espressiva - lo star bene insieme - conduca all’elaborazione collettiva di valori, norme e identità comuni, e quindi a una nuova idea di cittadinanza. Un’idea che sarà capace di generare un futuro più giusto nella misura in cui saprà aprirsi ai ‘senza voce’, ai marginali, ai poveri, a tutti coloro che patiscono disuguaglianze economiche e sociali; e anche a coloro che la voce ancora non ce l’hanno, come le generazioni future e la Terra che ci ospita.

Dall’ultimo ventennio del secolo scorso – scrive ancora Barbera - le scelte delle classi dirigenti sono andate nella direzione opposta: quella della contrazione degli spazi in comune a vantaggio della rappresentazione di una società fondata sull’individuo e sulla fiducia illimitata in un mercato taumaturgico, che avrebbe ‘naturalmente’ assicurato a tutti la felicità. Si è teorizzata la fine della storia e la costruzione di una società senza scopi collettivi e né futuro. Non è andata così. La fine della storia ha accresciuto, anziché ridurre, i bisogni insoddisfatti e le speranze frustrate. Soprattutto nei luoghi dove ciò si è manifestato con più forza – i gruppi sociali e i territori marginali – la contrazione degli spazi del ‘noi’ ha alimentato la formazione e il rafforzamento della paura e del risentimento, che ha concorso alla formazione di una visione nativista, escludente, rivolta al passato, orientata alla difesa di una (immaginaria) purezza originaria.

La contrazione degli spazi in comune – osserva Barbera - ha influito in modo negativo anche sui processi di elaborazione della proposta politica e sulla capacità della classe dirigente di elaborare un’offerta di futuro efficace e coerente. L’elaborazione politica ha in gran parte abbandonato i luoghi fisici del confronto diretto, faccia a faccia, assumendo a riferimento un’idea astratta, smaterializzata e indistinta di opinione pubblica. La discussione politica è uscita dai luoghi fisici trasformandosi in comunicazione politica. Alle strutture intermedie della partecipazione politica sono subentrati i vecchi e nuovi media che, interessati a occupare un loro spazio nel mercato dell’attenzione, hanno via via tramutato la politica in politicismo, in un ‘teatrino’ nel quale gli schieramenti prevalgono sul merito dei problemi e lo scontro sul confronto. Nei nuovi media prevale ormai la tendenza a mettere in scena il sé, con le sue ossessioni e frustrazioni, e ciò porta inevitabilmente alla polarizzazione dei giudizi, all’aggressività e all’incapacità di ascolto dell’altro. Se nei vecchi media è esclusa la discussione di merito, nei nuovi media scompare l’idea stessa di discussione.

La crisi degli spazi fisici del confronto – e con essi dei corpi intermedi di elaborazione e rappresentanza – ha la sua manifestazione più evidente nella perdita delle capacità delle forze della sinistra di rappresentare gli interessi dei più deboli. La crisi italiana degli ultimi decenni - afferma Barbera - va prevalentemente attribuita a processi politici ormai incapaci di offrire voce alle classi più deboli. L’attenuazione delle politiche ridistributive, l’abbandono dei territori marginali (i ‘luoghi che non contano’, come le periferie urbane, le aree interne e montane, i territori dell’ex produzione manifatturiera), il progressivo spostamento dell’attenzione dai diritti sociali ai soli diritti civili, l’adesione a una visione economica allineata con il ‘nuovo’ pensiero liberista, hanno spezzato il rapporto tra i partiti della sinistra e il loro elettorato storico.

L’esito di questa frattura è stato lo spostamento verso destra di una parte non marginale della classe operaia e del lavoro autonomo, tesa alla ricerca di ‘protezione’ dalla precarietà e dall’incertezza. Nello stesso tempo, la crisi dei partiti ha dato spazio all’idea di una politica disintermediata, al mito della rapidità di decisione, del partito ‘leggero’, del rapporto diretto tra il popolo e il leader carismatico e, in sede istituzionale, alla prevalenza del governo sul Parlamento. Ciò ha dato luogo a una crisi degli istituti democratici e del sistema di rappresentanza. Ne è emerso un ceto politico malamente formato e selezionato, insediato nei gangli del potere statale anziché all’interno del tessuto sociale, che controlla, attraverso giochi di potere interni, partiti sradicati dal corpo sociale e dai territori.

Con la globalizzazione, lo spazio fisico è stato trasformato in un contenitore uniforme e indistinto, diffondendo la convinzione che le specificità e le appartenenze locali siano residui di un passato da superare. In questa prospettiva, i luoghi del bello e del confortevole si sono via via adattati a canoni estetici e di accoglienza anch’essi globali. Si è così affermata l’idea di turismo sostanziata nell’immagine della Bellaitalia. Un’idea che tende ad annullare la specificità dei luoghi e, soprattutto, non tiene conto dell’esistenza di una Bruttaitalia diffusa, fatta di aree interne semi abbandonate, periferie degradate e tristi, litorali deturpati dall’incuria e dall’abusivismo edilizio: luoghi molto lontani dall’immagine da cartolina che interessa il turismo globale.

Le aree marginali – i luoghi che non contano, la Bruttaitalia – sono minacciati dal mancato riconoscimento sociale e dall’assenza di beni e servizi indispensabili per il benessere quotidiano delle persone che li abitano: dall’acqua all’energia elettrica, dei trasporti e delle reti informatiche, dalle scuole ai servizi di cura, dal commercio di prossimità all’artigianato ‘povero’. La ragione di questa minaccia sta nel fatto che la loro economia di base, se è da un lato essenziale per la qualità della vita di chi li abita, è dall’altro incompatibile con la logica della massimizzazione del profitto. Per questo è trascurata.

Ciò nonostante - sottolinea Barbera - i luoghi che non contano continuano in molti casi a mostrare una capacità inaspettata di innovazione. Anche in campo turistico non sono mancati i progetti incardinati intorno all’idea di un turismo lento e diffuso, che può rappresentare, a fronte di investimenti contenuti, una fonte preziosa di occupazione. Progetti che evidenziano una forte capacità di innovare a partire dalla diversità dei luoghi e nascono nei luoghi stessi. Anche in questi casi è decisiva la presenza di luoghi e infrastrutture che favoriscono il riconoscimento reciproco, il rispetto, la fiducia, il senso di appartenenza, la possibilità e la responsabilità di influire sulle scelte che investono la comunità.

Stiamo attraversando una crisi gravissima che ci ha condotto all’emergenza climatica, alle migrazioni di massa, a guerre sempre più frequenti ed estese, alle infinite crisi economiche e finanziarie, all’erosione delle istituzioni democratiche e alla caduta del principio di solidarietà tra classi, territori e generazioni. Dobbiamo lavorare insieme per progettare e costruire un futuro comune, dando voce a chi oggi ne è privo. Solo così i bisogni individuali potranno diventare valori collettivi. Non è facile. Il bisogno di futuro non è di per sé sufficiente per generare un futuro condiviso. Occorre perciò alimentare la costruzione del ‘noi’, e per farlo dobbiamo “ridare centralità agli spazi intermedi di elaborazione politica e al rapporto di rappresentanza, ripartire dalle persone-nei-luoghi senza chiuderci in gabbie nativiste. Solo così – conclude Barbera - potremo rimettere in discussione una divisione del lavoro tra classi, individui e territori che divide sempre più il mondo nei sommersi e nei salvati”.    

 

 

57 visualizzazioni0 commenti
bottom of page