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Torino, un giardino contro la violenza a ricordo di Romane Work, la "melagrana d’oro"

di Stefano Garzaro


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Sulla mappa topografica torinese è destinato a comparire un nuovo nome, Romane Work, “melagrana d’oro” in lingua amarica, la lingua dell'Etiopia. La decisione è stata presa il 16 settembre dal Consiglio comunale a larga maggioranza, su proposta del consigliere Abdullahi Ahmed: alla giovane donna africana Romane Work Haile Selassié, morta nel 1940 a 27 anni, vittima del colonialismo e del fascismo, verrà dunque intitolato un rettangolo verde nel Borgo Filadelfia tra le vie Arduino, Uffreduzzi e Pescarolo. Un giardino dedicato a una donna, che sebbene non porterà equilibrio nella netta prevalenza maschile toponomastica ricca di condottieri e cattedratici, riproporrà alla memoria una storia torinese che mescola vigliaccheria e coraggio.

Romane Work era una principessa, la figlia maggiore del ras Tafari etiopico il negus Haile Selassié, discendente secondo tradizione dal re Salomone e dalla leggendaria regina di Saba. Ma ricostruiamone la drammatica vicenda storica.

Guerra d’Africa, ottobre 1935: le truppe italiane guidate da De Bono e Badoglio sbarcano in Eritrea (allora una regione dell’Etiopia). È il sogno dell'Impero che il Duce, Benito Mussolini, ha deciso di imporre all'Italia. Il Regio Esercito e i militi fascisti della MVSN non hanno scrupolo nell’usare qualsiasi arma, compresi i gas, per massacrare la popolazione. Alla fine del conflitto saranno 750.000 gli africani uccisi, molti dei quali nei campi di concentramento o giustiziati come partigiani. Dopo l’invasione, Haile Selassié, amato dal suo popolo anche in qualità di difensore della fede e della chiesa ortodossa nazionale, è costretto all’esilio in Inghilterra. La sorte della principessa Romane Work è legata al marito Merid Bayanè, che organizza la resistenza. Nella seconda metà del 1936 Bayanè si dà alla macchia con i suoi uomini, ma si scontra con la colonna camionata Tucci specializzata nel reprimere la guerriglia. Catturato, Bayanè viene fucilato, mentre la sua famiglia è deportata in Italia all’isola dell'Asinara.

Romane Work, nella Cayenna del Mediterraneo, com’è conosciuto il lager sardo, subisce un trattamento disumano, assieme ai quattro figli e al piccolo seguito. Presto uno dei bimbi più piccoli muore di stenti e il cadavere viene fatto sparire. I carcerieri italiani non conoscono l’identità dei prigionieri, finché il campo non viene visitato da monsignor Gaudenzio Barlassina, superiore generale dei missionari della Consolata. Barlassina, già in buoni rapporti con il Negus, riconosce Romane Work e interpella con urgenza il governo fascista: si corre il rischio di nuovi attacchi all’immagine dell’Italia, ad aggravare le sanzioni già decretate dalla Società delle Nazioni.

Romane Work con i suoi viene trasferita in una clinica di Roma, con un viaggio non privo di inconvenienti. Attraversando la capitale, ad esempio, i prigionieri suscitano curiosità e dileggio nella folla: «Venite a vedere, passano i negri». La principessa Romane Work, con la dignità sotto i piedi, si sente trattata come un animale da circo.


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Entro pochi mesi, vista la precarietà dell’isolamento nella clinica romana, il ministro dell’Africa Italiana incarica mons. Barlassina di cercare una sistemazione migliore. Il prelato si rivolge a una consorella, suor Rosa Emilia Battaglia che dirige l’Opera San Michele a Torino in via Genova, di fronte all’ospedale delle Molinette. Suor Battaglia, prima della guerra in Africa Orientale, è stata missionaria ad Addis Abeba, perciò conosce bene quelle popolazioni e parla l’amarico. È la persona più indicata per organizzare l’ospitalità.

Il gruppetto degli etiopi varca il portoncino dell’istituto torinese il 3 luglio 1937. Assieme a Romane Work vi sono i figli Ghietacceu, Merid e Samson, di sei, cinque e tre anni. Li accompagnano due servi, il giovane Abbat e una ragazzina di dodici anni, Aialecc, oltre a due anziane monache copte. Le suore del San Michele mettono a loro disposizione un appartamento di tre camere con sala da pranzo e bagno. Alle monache copte viene riservata una stanza a parte. Le suore torinesi organizzano un ambiente accogliente, il più possibile adatto al rango dei prigionieri della famiglia imperiale etiopica. La presenza degli ospiti viene tenuta segreta e ogni volta che questi escono accompagnati dall’istituto, quasi sempre con il buio, la polizia fa allontanare i curiosi.

Il 1° aprile 1940 inizia la serie dei disastri: Abbat, il giovane servo, si ammala di tubercolosi. Viene ricoverato nell’ospedale delle Molinette, confortato dalle continue visite di Romane Work e di suor Battaglia. Il 12 luglio tuttavia Abbat muore. Romane Work, che non tiene conto del pericolo di contagio, pochi mesi dopo si ammala anche lei. La sua salute, già minata dalle disgrazie subite, peggiora nell’autunno 1940, quando la giovane è ricoverata alle Molinette: le danno una stanza isolata con finestra su via Genova di fronte all’istituto, così la mattina può affacciarsi a salutare i bambini. I professori Sisto e Massobrio fanno di tutto per salvarla, ma il 14 ottobre 1940 Romane Work muore assistita da suor Battaglia.


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Le autorità fasciste ordinano di nascondere l’avvenimento, tant’è che negli archivi non vi è traccia dell’atto di morte della principessa. Al funerale sono presenti soltanto il questore, suor Battaglia e i custodi del Cimitero monumentale. Sulla lapide viene incisa la scritta anonima “A una mamma” e occorrerà attendere il 1960 per veder comparirà il vero nome. La sepoltura – sconosciuta ai torinesi di oggi – è meta tuttora della pietà della comunità etiopica.

Il resto della vicenda è altrettanto angosciante. La guerra infatti investe Torino con i bombardamenti alleati. Nel dicembre 1940 i nipoti del negus sfollano a Varazze, ma la cattiva sorte sbarca anche in Liguria: Ghietacceu è assalito da una forte febbre e rientra a Torino, alle Molinette. Le cure sono inutili e il ragazzo muore la sera del 22 febbraio 1944. Viene seppellito accanto alla madre nei sotterranei della sesta ampliazione, a pochi passi da Edmondo De Amicis. I due loculi, numerati 130 e 134, fino a una decina d’anni fa erano segnalati da un tappeto rosso, steso nel 1970 in previsione di una visita del negus, più volte rimandata e mai compiuta.

Torniamo però in Liguria, dove i bombardamenti dal mare impongono la fuga anche da Varazze dei ragazzi superstiti. Nel 1943 questi vengono trasferiti prima nel Monferrato, sempre affidati alle suore della Consolata, e nel giugno 1945 a Torino nella Villa Saglietti, sul Po, ove rimangono fino al termine della guerra. Non possono tornare nell’Istituto San Michele perché nel frattempo le bombe l’hanno danneggiato gravemente.

Nella primavera 1945, a liberazione avvenuta, i piccoli Merid e Samson vengono affidati agli Alleati. Un ufficiale americano s’incarica di riaccompagnare ad Addis Abeba i nipoti del Negus e la partenza avviene il 15 agosto 1945 da Roma con un aereo riservato.

Tornati in Etiopia, i ragazzi dimostreranno negli anni una riconoscenza continua verso il San Michele, le suore della Consolata e in particolare suor Battaglia, che li ha seguiti come una madre. La loro sorte tuttavia non sarà delle più felici: Samson morirà qualche anno più tardi in un incidente stradale; Merid, che assumerà un ruolo di primo piano nella diplomazia etiopica accanto al nonno, scomparirà dopo il sanguinoso colpo di stato di Menghistu del 1974, che eliminerà gli oppositori colpevoli di qualsiasi legame con Haile Selassie.

Oggi, a quasi un secolo dall’invasione italiana dell’Etiopia, è significativo che la memoria di quella violenza non venga cancellata, e ciò grazie a un torinese di origini africane come il consigliere comunale Abdullahi Ahmed, fondatore di GenerAzione Ponte, ideatore del festival dell’Europa solidale e del Mediterraneo di Ventotene. Ed è ancor più rilevante che Ahmed provenga dalla Somalia, nazione oggi in conflitto con l’Etiopia, la patria di Romane Work.

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