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Racconti per l'estate. Il Molinetti, fiorista da balera

di Marco Travaglini

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Arrigo Molinetti, fiorista, cantava sempre. Ogni occasione era buona per allenare l’ugola, sia che stesse recidendo i gambi delle rose per una composizione a beneficio di una coppia d’innamorati, sia che stesse legando con il fil di ferro i garofani a una corona funebre. Prima di scoprire d’avere il pollice verde era stato per una decina d’anni impiegato come tornitore in una ditta metalmeccanica di Pieve Vergonte, in Val d’Ossola. Ma tra un mestiere e l’altro, non aveva mai smesso di coltivare la sua grande passione per la musica. Il suo idolo era Enzo Jannacci. Si era talmente immedesimato nell’interpretazione del repertorio del cantautore e cabarettista milanese che, per amici e conoscenti, era ormai diventato lui stesso lo “Jannacci“.

Smesso di fare l’operaio e aperto un negozio di fiori a Domodossola, aveva deciso di dedicare più tempo alla sua passione. Posate le forbici e levati i guanti si chiudeva alle spalle la saracinesca e, chitarra in spalla, correva ad esibirsi nelle balere, nei circoli e anche per strada. Capitava di incontrarlo, tutto trafelato, mentre inforcava la sua lambretta per andare ad esibirsi. Salutava tutti con un “Oilà, si parte! Stasera facciamo muovere le gambe ai ballerini e cacciar via l’artrosi dalle ginocchia”. E si riferiva agli amanti del ballo in piazza nei centri ossolani, ai danceur dei circoli di Vigezzo e Anzasca, o delle sale da ballo di Bognanco e Varzo. Parlava al plurale, riferendosi al sodalizio che aveva stretto con Duilio Galaverna, l’altro componente della sua band, I Trambusti. Quest’ultimo era la sua spalla in tutti i sensi anche se, sotto il profilo floricolo, apparteneva ad un ceppo più nobile. Il Galaverna, infatti, era giardiniere all’isola Madre, situazione che – come si può ben capire – comportava una certa responsabilità.

Sulla più grande delle isole Borromee aveva a che fare con un patrimonio botanico di tutto rispetto. L’isola, larga 220 metri e lunga 330, è occupata soprattutto da giardini. Discendente di una delle famiglie più celebri di quegli “hortolani” che, dal ‘500, accudivano quel ben di Dio che aveva  nel romantico giardino all’inglese la sua perla più rara e invidiata, era anch’esso un musicomane. Potava, piantava, travasava, innaffiava e innestava ma soprattutto cantava. Accompagnandosi con la sua Soprani classica, una signora fisarmonica, nel tempo libero e nelle serate dava il ritmo alle canzoni dello Jannacci. 

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I Trambusti, sul palco, perdevano quella timidezza che li contraddistingueva quando maneggiavano i fiori e avviavano il concerto seguendo, da consumati professionisti, la scaletta del loro borderò, partendo immancabilmente da El portava i scarp da tennis. In breve snocciolavano a perdifiato le canzoni dei primi tempi del medico, cantautore e cabarettista milanese come Andava a Rogoredo, La luna è una lampadina, T’ho compràa i calzett de seda, Faceva il palo, Ho visto un Re, Giovanni telegrafista senza dimenticare la celeberrima Vengo anch’io. No, tu no. La seconda parte era tutta una tirata a perdifiato con Mexico e nuvole, Ci vuole orecchio, Silvano, Bartali, Soldato Nencini e Quello che canta onliù. Se il pubblico chiedeva il bis, cosa che accadeva molto spesso, i due si lasciavano andare ad una terna di canzoni ad effetto: Veronica, L’importante è esagerare e L’Armando.

Erano ricercatissimi e nel tempo, dopo aver battuto in lungo e in largo l’Ossola e le valli limitrofe, si erano spinti anche nel Cusio e persino nel Verbano fino alla sbarra doganale con la Svizzera, arrivarono a sconfinare in terra lombarda, sulla sponda magra del Maggiore, suonando nelle sale da ballo e in qualche pub di Laveno, Luino e Maccagno. Quando gli amici passavano davanti al negozio dell’Aristide, nei pressi di Piazza Mercato, li salutava intonando a voce piena “Che scuse’ ma mi vori cuntav d’un me amis.. el purtava i scarp de tennis,  el parlava de per lu e rincorreva gia’ da tempo un bel sogno d’amore... l’avea vista passa’ bianca e rossa che pareva il tricolore..”.

Questo accadeva nei giorni feriali perché se lo incrociava la domenica mattina, mentre usciva da messa (era un praticante molto devoto e pur di non mancare alla funzione festiva era disposto a tradire anche la passione per la musica), li salutava con un “Forza, ragazzi: tirate fuori la voce che cantiamo insieme” e, senza attendere risposta, attaccava con L’Armando: “...Tatta tira tira tira tatta tera tera ta. Era quasi verso sera se ero dietro, stavo andando che si è aperta la portiera è caduto giù l’Armando”. I Trambusti sono andati avanti così per quasi vent’anni. Poi al Galaverna è venuta un’artrite reumatoide alle mani. Colpa dell’umidità, dello stress e dei veleni dei diserbanti. Non riusciva più a farle correre sulla tastiera della fisarmonica e così, immalinconito e giù di corda, aveva smesso di suonare.

L’Arrigo Jannacci, senza la sua spalla, ripose nell’armadio la chitarra e si limitò a fischiettare le sue canzoni lavorando in negozio. Con i concerti non avevano tirato su più di tanto. Per le loro prestazioni non chiedevano mai somme di denaro (“il soldo fa arrugginire le corde vocali. Se lo dovessi fare per denaro non riuscirei più ad intonare un fico secco“, sentenziava Molinetti, gonfiando il petto con un moto d’orgoglio). Accettavano solo pagamenti in natura. Un pollo, un coniglio nostrano, mezzo tacchino arrosto, un cesto di prodotti dell’orto, marmellate fatte in casa e, qualche volta, i baci carnosi di qualche bella ostessa, ben felice di provare a vedere se quelle labbra erano poi così morbide e dolci come le parole di alcune canzoni.


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