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Quando la Jugoslavia era il Brasile d’Europa

Marco Travaglini

Aggiornamento: 20 lug 2024

di Marco Travaglini


Il campionato europeo di calcio è alle ultime battute, riservando poche sorprese (a parte l'eliminazione, meritata, dell'Italia che lo vinse per la seconda volta nel 2021) e sporadiche emozioni legate al bel gioco, se si esclude la Spagna dei giovanissimi talenti. Rispolverando le memorie non si possono dimenticare le vicende calcistiche della ex Jugoslavia, da sempre intrecciate con l’originalità politica, sociale e culturale di una nazione costruita sul delicato equilibrio di popoli eterogenei che attraversarono buona parte del Novecento con tutti i suoi traumi, utopie e contraddizioni. Dai primi successi olimpici ai contrasti anche sportivi con l’Italia sulle “questioni” di Fiume e Trieste (risoltasi nel 1954, anno della Coppa Rimet in Svizzera, dall’impresa della nazionale under venti vittoriosa in Cile nella sesta edizione del campionato mondiale nel 1987 fino allo sgretolamento del paese degli slavi del sud che iniziò proprio su un campo di calcio, il Maksimir Stadion, con gli scontri del 13 maggio 1990 durante l’incontro tra i padroni di casa  croati della Dinamo Zagabria e i serbi belgradesi della Stella Rossa, preceduti dalle tensioni, per rimanere in ambito sportivo, che si erano registrate ad Atene, durante i campionati europei di basket nel 1987, nella quintetto della nazionale.

Nel calcio è stata un’epopea fatta di successi e talenti ma soprattutto di una costante ricerca della perfezione e della fatale rivelazione di un senso profondo di instabilità e fragilità. Il calcio jugoslavo ha rappresentato un caso unico, una inedita combinazione di geometria e fantasia con giocate pulite ed eleganti, trame ipnotizzanti e fulminee verticalizzazioni, tanto belle e sofisticate quanto incostanti, puro esempio di virtuosismo mitteleuropeo che spesso tracimava in un lezioso senso di superiorità che, a volte, veniva dissipato a causa di quello spirito balcanico che porta fatalmente all’eccesso.

La Stella Rossa di Belgrado, ad esempio, è stata l’unica compagine jugoslava a vincere la Coppa dei Campioni e quella Intercontinentale, entrambe nel 1991. Il 29 maggio di quell’anno in molti, sulla sponda dell’Adriatico opposta all’Italia, se lo sono appuntato tra i ricordi più belli. Fu una serata speciale allo stadio San Nicola di Bari dove la “crvena zvezda” di Dejan Savićević piegò ai rigori (5 a 3) l’Olympique Marsiglia di Amoros e Papin grazie ai goal di Prosinečki, Binić, Belodedić, Mihajlović e Pančev.

Simbolo della Jugoslavia multietnica, la Stella Rossa era scesa in campo schierando serbi, macedoni, montenegrini, croati e bosniaci. Un successo internazionale importante che purtroppo coincise con uno degli ultimi successi del calcio jugoslavo, quasi una sorta di canto del cigno. Infatti al termine del campionato 1990-1991 le squadre croate e slovene abbandonarono il torneo, e lo stesso fecero l’anno successivo quelle macedoni e quelle bosniache. Dopo la dissoluzione della Jugoslavia (morto Tito nel 1980), federazione di sei repubbliche e due province autonome (nell’ordine: Croazia, Slovenia, Serbia, Montenegro, Bosnia ed Erzegovina, Macedonia, Kosovo, Vojvodina), nato all’indomani della durissima guerra di liberazione dagli invasori nazifascisti, presero forma anche i singoli campionati nazionali. Sei, tanti quante le nazioni nate dall’implosione che incenerì il capolavoro istituzionale del Maresciallo: la Socijalistička Federativna Republika Jugoslavija.

Anche la nazionale slava, intesa nella sua interezza, giocò di lì a poco la sua ultima partita, esattamente il 25 marzo del 1992. Era un amichevole con gli arancioni olandesi e rimediò una sconfitta per 2-0. Non se la presero più di tanto perché gli sguardi e le attese erano tutti puntati  sull’Europeo in Svezia di quell’estate, alla cui fase finale la nazionale Jugoslava sia era qualificata a pieno merito. Già vincitrice del già citato mondiale under 20, con giocatori del calibro di Boban, Suker e Mijatovic e ingiustamente eliminata ai quarti del mondiale di Italia ’90, quella squadra – che alcuni ribattezzarono “ il Brasile d’Europa” – era pronta a cogliere un grande risultato.

Avrebbe potuto vincere quell’Europeo? Probabilmente sì, ma la domanda restò lì, sospesa a mezz’aria, senza risposta poiché – scoppiata la guerra nei Balcani – la squadra jugoslava venne esclusa dalla competizione e sostituita dalla seconda classificata del suo girone. Quest’ultima, la Danimarca, si aggiudicò a sorpresa il torneo, battendo in finale con un secco 2-0 la Germania di Andreas Brehme e Jürgen Klinsmann. Un segno del destino? L’ironia della sorte? Forse è più giusto dire che la tragica realtà del conflitto nell’ex Jugoslavia fece tra le sue prime vittime anche quella del sogno balcanico di una squadra che, raggiunto l’apice della maturità, praticamente sul più bello si vide cancellare di colpo ogni aspirazione e qualsiasi prospettiva.

A quei giocatori, ricchi di estro e genialità, era stata affiancata un’organizzazione solida e rigorosa. Insomma, gli “slavi del Sud” avevano in mano le carte giuste per fare il botto e vincere. Il botto, invece, lo fecero le bombe, i tonfi dei mortai, le fucilate secche dei cecchini, il crepitio delle scariche di mitraglia. Il sogno di gloria di quei ragazzi in maglia blu finì sotto le macerie e oggi, ciò che resta del calcio slavo è senz’altro dignitoso e rispettabile (come rammentano le performance della Croazia),  ma ha poco a che vedere con il talento e la forza di quella squadra, in grado di regalare concrete emozioni e promettere gloria e successi. Resta il ricordo di quella nazionale che seppe qualificarsi due volte quarta ai mondiali e due volte seconda agli Europei oltre a vincere un oro, tre argenti e un bronzo ai Giochi Olimpici. E l’immagine, anche se un poco sfocata, del tempo in cui anche l’Europa aveva il suo Brasile.



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