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PUNTURE DI SPILLO. Chi ha paura del debito pubblico?

a cura di Pietro Terna


Su Project Syndicate,[1] Kenneth Rogoff – professore di Economia e Politica Pubblica all'Università di Harvard, insignito del premio Deutsche Bank 2011 in Economia Finanziaria e economista capo del Fondo Monetario Internazionale dal 2001 al 2003 – tuona contro il debito pubblico. Il suo passato, e anche il premio ricevuto, la dicono lunga su di lui. Nell’articolo[2] si fa forte dell’appoggio di altri tre uccellacci del malaugurio del Fondo Monetario Internazionale che recentemente hanno scritto[3] a proposito dei “rischi fiscali e finanziari di un mondo ad alto debito e a crescita lenta”. A costo di inimicarmi molte persone, cerco di spiegare che hanno torto. Non che indebitarsi sia bello, ma è stato e sarà ancora necessario. Certo occorre lungimiranza da parte di chi sovrintenda alla moneta e di chi governa.

Il debito pubblico è creato principalmente dagli Stati indebitandosi con banche e cittadini; anche i Comuni e le Regioni si indebitano, ma soprattutto con le banche. Il primo motivo per indebitarsi è quello di fare degli investimenti pubblici, come scuole, ospedali, strade. Gli enti pubblici hanno un bilancio puramente di entrate e uscite, non hanno – né contabilmente, né concettualmente[4] – un sistema di accumulazione e, non vendendo il loro prodotto, non hanno un flusso di entrate corrispondente agli ammortamenti, con cui finanziare nuovi investimenti. Di conseguenza possono solo indebitarsi, destinando una parte delle loro entrate al servizio del pagamento dei mutui contratti. È quanto ha fatto Torino per realizzare la prima linea della metropolitana e per finanziare le maggiori spese necessarie per realizzare compiutamente il passante ferroviario. Chi tuona contro i debiti del capoluogo regionale dovrebbe ricordarselo. In ogni caso, con il tempo necessario, quei mutui saranno rimborsati e le opere resteranno. Con le dovute manutenzioni. Che non sono gratis... giustamente.

Lo Stato, non il nostro ma tutti, è più libero e può emettere titoli del debito pubblico per colmare il disavanzo anche tra ciò che incassa e ciò che eroga. Può… se qualcuno sottoscrive quel debito. In questi giorni abbiamo registrato qualche scricchiolio con una emissione di 10 miliardi debito italiano che è stata registrata variamente dai quotidiani del 7 maggio: “Debutto lento per il Btp Valore speciale - La domanda sì ferma a 3,7 miliardi di euro” (La Stampa); “Stavolta il Btp Valore parte lento - Il Tesoro si accontenta di 10 miliardi” (Il Sole 24 Ore); “Tutti in fila per il Btp valore, acquisti record a 3,7 miliardi” (Corriere della Sera). Si direbbe che l’offerta non sia stata ben concertata con gli investitori istituzionali, che sottoscrivono e poi cedono i titoli al pubblico dei risparmiatori oppure… alla BCE, quando quest’ultima fa operazioni di mercato aperto per immettere liquidità nel sistema. Paradossalmente sta accadendo che le banche, depositando quella stessa liquidità presso la Banca Centrale, stiano lucrando pingui interessi, ma questa è un’altra storia.[5]

Torniamo a Rogoff e agli uccellacci del malaugurio del Fondo Monetario Internazionale, mai paghi dei guai creati in mezzo mondo con la loro difesa del denaro. L’unico vero danno causato dal debito pubblico non è la massa del debito in sé, sino a che si trova chi lo sottoscrive, ma l’eventuale eccesso di domanda di beni, sommando domanda pubblica e privata, che fa esplodere l’inflazione.

Occorre però essere molto attenti nell’analisi: per fronteggiare la pandemia, con il sostegno ai consumi e alla disoccupazione, con l’accelerazione della ricerca, con gli interventi straordinari per la sanità, l’Europa, il Regno Unito e soprattutto gli Stati Uniti hanno emesso debito in quantità straordinaria, mentre le relative banche centrali iniettavano liquidità senza limiti nel sistema finanziario. Abbiamo sorretto la domanda, senza che si manifestasse inflazione. È arrivata dopo, quando l’economia del mondo intero si è rimessa in moto e sono emersi i colli di bottiglia della produzione, tradizionale o a alta tecnologia, come nel caso della mancanza dei chip per le applicazione informatiche. Tutto ciò a causa della incorreggibile abitudine delle imprese, anche le maggiori, di immaginare che il futuro sia come il passato: è crollata la domanda, dunque resterà tale, quindi niente scorte e grandi difficoltà per ripartire. Dopo qualche mese la produzione si è rimessa in moto e l’inflazione è rapidamente rientrata.[6]

Si può dunque emettere debito per fronteggiare le difficoltà delle persone che si trovano al di sotto di una situazione di benessere equo e sostenibile? Certo, governandone la dimensione complessiva non in rapporto al PIL, che è misura del tutto indipendente – i beni prodotti in un anno da una economia non rappresentano un metro per la sostenibilità del debito dello Stato in cui quella economia opera –, ma con l’onere degli interessi e con la disponibilità dei sottoscrittori. Nei momenti di difficoltà esiste anche il grande scudo delle banche centrali, che in anni recenti[7] hanno detenuto quote ingentissime del debito degli Stati. Ad esempio il 30 per cento di tutto il debito che ha emesso la Germania e un quarto di quello italiano.

Spalanco le porte ai lettori per le loro reazioni critiche, sperando che non chiedano al direttore del sito il mio allontanamento dalla Porta di Vetro. Di questi tempi…

Il nostro piccolo baccelliere[8] di musica, viste le premesse, propone di ascoltare un brano[9] di Ornette Coleman, Lonely woman. Siamo nel 1959, un anno seminale per la storia del jazz. È l’anno di Kind of blue di Miles Davis e di Giant steps di John Coltrane, di Mingus Ah Um di Charles Mingus e di Time out di Dave Brubeck. E appunto di The shape of jazz to come, con il quale Ornette Coleman pose le basi del nuovo corso del jazz. La new thing cominciò di qui. Un po’ come Kenneth Rogoff, musicisti e critici arricciarono il naso. La ricerca di nuove regole rispetto all’armonia e al ritmo e alle costrizioni a questi collegate era scambiata per il rifiuto o per l’incapacità di rispettarle. Invece dietro quell’apparente pazzia c’era un metodo. Più tardi Ornette diede forma alla propria teoria musicale e parlò di armolodia dimostrando che era una profonda elaborazione intellettuale a guidare le sue improvvisazioni. Lonely woman è una ballad, moderna come uno schizzo di colore su un quadro di Pollock. A sessantacinque anni di distanza nessuno discute più la genialità di questa musica. Era semplicemente ciò che, in quel momento, era necessario fare. Ciò che è necessario. Saperlo distinguere con lungimiranza e al di là dei preconcetti qualifica i decisori.


Note

[1] Project Syndicate è un'organizzazione internazionale senza scopo di lucro fondata nel 1995 a Praga e composta da un'associazione (print syndication) di editori e periodici. Pubblica un sito in inglese, tradotto in 13 lingue, che ospita commenti e analisi realizzate da una rete di accademici, attivisti, politici, economisti Premi Nobel, intellettuali e leader del mondo imprenditoriale. Segue a https://it.wikipedia.org/wiki/Project_Syndicate 

[4] La riforma della contabilità pubblica ha cercato di ovviare a questi problemi, che però sono insiti nel tipo di attività degli enti pubblici e non si risolvono complicandone la contabilità, come il caso delle aziende sanitarie insegna.

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