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Guido Tallone

Paderno Dugnano: il dramma alla ricerca della "seconda casa"

di Guido Tallone


L’angosciante vicenda di Paderno Dugnano dove un ragazzo di quasi diciotto anni ha ucciso, con un coltello da cucina, l’intera sua famiglia (il fratellino di dodici anni, la mamma e il papà) è ancora immersa – a otto giorni dalla tragedia – nella nebbia del mistero che inquieta, che disorienta, che fa paura e che silenzia i commenti perché alle prese con una quota di male non solo eccessiva, ma anche insopportabile per il cuore umano e incomprensibile per la nostra ragione.

Alcuni frammenti di verità iniziano però a trapelare. A cominciare dal “responsabile” della strage. Il quale non solo ha confessato i tre omicidi, ma ha anche dichiarato che: «Non c’è un perché. Mi sentivo un corpo estraneo in famiglia, con gli amici. Ero oppresso, mi sentivo solo in mezzo agli altri».

Non basterà una vita, a questo ragazzo, per entrare dentro di sé e per capire che cosa lo ha spinto ad inseguire la “sua” libertà togliendo la vita ai suoi cari. Un dato però sembra certo: il suo dolore “muto” è diventato un atroce e gravissimo gesto di violenza. A conferma del fatto che la mancanza di “parola” e l’incapacità di esternare le proprie emozioni sono premesse che creano, inevitabilmente, i rigagnoli carsici che preparano la violenza. Chiuso nella sua “fortezza” e incapace di aprirsi a chi gli era accanto, il ragazzo ha provato a curarsi da solo, ma il rimedio posto in atto per lenire il suo senso di “oppressione” non lo ha condotto verso l’attesa libertà, ma – proprio perché non è riuscito ad usare la parola – lo ha imprigionato fisicamente e psicologicamente in un principio di realtà tragica dal quale – adesso – non si può tornare indietro.

Intanto psicologi, psichiatri, psicanalisti e addetti ai lavori provano a fare luce su una tragedia che ci sovrasta e che – allo stesso tempo – ci terrorizza al solo pensiero che un qualcosa di simile possa accadere anche nelle nostre case. Alcune analisi sono catastrofiste (“Genitori smidollati”, “Famiglie troppo protettive” “Non ci sono più i padri di una volta”, “Crisi della famiglia tradizionale” e tante altre litanie simili).

Altri approfondimenti denunciano il narcisismo latente dei nostri adolescenti, l’eccesso di individualismo che vivono e che esprimono, la fatica da parte di molti di loro (specie da parte dei maschi, dicono alcuni) nel chiedere aiuto e di confrontarsi – senza sensi di colpa – con le proprie fragilità. Altri approcci sono più clinici e denunciano la mancanza di psicologi, di medici e di presidi territoriali pronti a curare chi sta crescendo, i nostri adolescenti. E per quanto sia vero che la sanità territoriale sia la cenerentola del sistema sanitario pubblico non si può ridurre la questione giovanile ad un tema sanitario. I nostri ragazzi – sempre utile ribadirlo – non sono “problemi da curare”, ma soggetti e cittadini da accompagnare in quel percorso educativo che li rende adulti e che – di fatto – è il grande assente dalle riflessioni di questi giorni.

Ecco perché credo che la tragica vicenda di Paderno Dugnano prima di parlarci della crisi della famiglia, della scuola, della genitorialità o del sistema sanitario (realtà che oggettivamente necessitano cure!), ci evidenzia il grande “vuoto educativo” in cui sono immersi i nostri adolescenti. Mancano cioè i progetti, gli investimenti, le politiche e i servizi aggregativi per aiutare gli adolescenti a costruire quella “seconda casa” che è loro indispensabile non solo per valorizzare la “prima casa” (!), ma anche per decollare e per diventare adulti.

Lo abbiamo dimenticato, ma è sempre stato così: l’adolescenza è il tempo in cui chi cresce prova – con gradualità – ad “uscire” dalle sicurezze sperimentate in casa e a scuola per cominciare a costruire una ulteriore e nuova comunità di riferimento. Si tratta del famoso “gruppo dei pari” indispensabile per “lasciare” il porto da cui si proviene. “Uscire” e “lasciare”: non a caso i due verbi più usati dagli adolescenti.

I quali hanno bisogno non solo degli amici per tentare questa impresa, ma anche di figure adulte autorevoli, laiche, coinvolte, distaccate e soprattutto esperte nel tacere e nel parlare; capaci di ascoltare e di dare un consiglio; pronti a non giudicare e sempre pronti a rinnovare fiducia e libertà. Parlo della figura dell’educatore che quando è presente in un gruppo di adolescenti fa la differenza.

Anche perché i nostri ragazzi cercano la loro “seconda casa” per provare a gettare la vita in avanti (“pro”-“gettare”) e per capire se – insieme al proprio gruppo di amici – esista una sfida, una mèta, un ideale o un fine capace di motivare il cammino.

La “seconda casa” degli adolescenti deve avere le porte girevoli per poter entrare ed uscire al bisogno: senza doversi iscrivere a questo o a quel percorso a pagamento. E deve essere presidiata con leggerezza dall’educatore il quale riconosce agli adolescenti che provano ad abitarla il protagonismo e la responsabilità del posto e del progetto in cui si cimentano. Tutto ciò che – di fatto – oggi manca ai nostri giovanissimi.

Ed eccoci alla nostra analisi: il “vuoto interiore” che molti nostri giovanissimi sperimentano è speculare al “vuoto istituzionale” di proposte formative in grado di dare forma, sostanza e concretezza al bisogno “migratorio” dei nostri adolescenti che non riescono, da soli, ad entrare nel mare aperto della vita adulta.

Nella loro seconda casa i nostri adolescenti possono, finalmente, dedicarsi a quel fare “niente” che tanto disturba i grandi. Imparano a discutere, a confrontarsi, a sognare, a inventare attività, ma anche a litigare, a cambiare idea, a piangere, a sfogarsi e – quando serve – ad appoggiarsi sulla spalla di un adulto che spiega a chi cresce la “normalità” del cadere, la bellezza del rialzarsi e la forza rigenerante dell’errare e del riprendersi dai propri errori.

Senza questa “stanza”, senza questa “seconda casa” i nostri adolescenti – inutile negarlo – stanno male. Entrano nella “fortezza” che tanto ci fa paura e provano a curarsi con chat, reti virtuali e smartphone che – di fatto – non portano fuori chi li usa (il verbo “uscire) e non educano a “lasciare” l’infanzia.

Protetti, difesi e corteggiati dal mercato, i nostri ragazzi esistono come figli, come studenti, come nipoti oppure come “clienti” sul quale investe, ma non come “cittadini” con precisi diritti e altrettanti chiari bisogni. Non è bello da dire, ma per chi non vota e per chi non è capace di organizzarsi in lobby come le famiglie dei bambini, le politiche non investono e non spendono in progetti educativi. Telecamere e psicologi sembrano gli unici investimenti possibili per i nostri ragazzi: per osservarli anche a loro insaputa e per spegnere le loro ansie.

Ed ecco la realtà: per i nostri adolescenti non si ha il coraggio di investire risorse in progetti educativi. E questo vale per le scuole pubbliche, ma anche per quelle private, per gli Istituti statali e per quelli regionali, per le amministrazioni comunali e persino per molti contesti ecclesiali (anche se va riconosciuto che sono stati proprio loro ad “inventare” l’oratorio come “seconda casa” di cui le metropoli del nord sono debitrici, e a tenerne aperti alcuni anche oggi con ottimi risultati tanto per i ragazzi quanto per le famiglie).

Fino a quando – però – sarà così e non si investe in politiche educative, avremo tanti commenti a tragedie che si ripetono con protagonismi ragazzi e altrettanti “vuoti” pronti ad alimentare il “vuoto” interiore di chi cresce orfano dei diritti educativi necessari per diventare un solido e solidale cittadino.

 

                                                                               

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