Mondiale per club e non solo: sauditi alla conquista dello sport
- Jacopo Bottacchi
- 14 ore fa
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di Jacopo Bottacchi

All’inizio degli anni ‘90, il politologo statunitense Joseph Nye coniò il termine soft power. Il concetto, da allora entrato stabilmente nell’analisi delle relazioni internazionali, è piuttosto semplice: traducibile in italiano come potere della persuasione, si riferisce alla capacità di uno Stato di ottenere i risultati desiderati in politica internazionale, convincendo gli altri, grazie alla propria influenza culturale e alla propria reputazione, senza dover necessariamente ricorrere al potere economico o a quello militare. Secondo le ricostruzioni, durante la Conferenza di Jalta, il capo dell'Urss Stalin chiese ai suoi interlocutori “quante divisioni ha il Papa?”, contestando il peso delle opinioni di Pio XII sul riassetto geopolitico all'uscita della Seconda guerra mondiale. Una battuta, certo, influenzata anche dai tragici avvenimenti e dal costo di vite umane pagate per l'invasione nazista, tuttavia testimonia una scarsa comprensione del concetto di soft power da parte della leadership sovietica dell’epoca. All’opposto invece, per decenni, gli Stati Uniti sono stati largamente impegnati nella diffusione dell’american way of life a livello globale, basti pensare all’industria cinematografica hollywoodiana e alla sua centralità nella promozione dei “valori” e della cultura made in USA. All'opposto, la cronaca quotidiana oggi sembra suggerire che i leader di alcuni dei più grandi paesi siano completamente disinteressati alla propria percezione nel mondo, o meglio che siano impegnati a dimostrarsi costantemente “uomini forti”, in grado di imporre, con le armi o con sanzioni economiche, la loro volontà.
In questo scenario, un’interessante eccezione (non l’unica) è rappresentata dalla Monarchia assoluta Saudita e dal suo erede al trono, Mohammad bin Salman -MBS-, che ben poche remore ha nell’utilizzare il potere economico per ricattare altri paesi, ma che ciononostante sta provando a guadagnarsi il rispetto nel mondo e, forse, delle opinioni pubbliche occidentali. Nell’ultimo decennio l’Arabia Saudita, la più grande economia del Medio Oriente e del Nord Africa, ha investito miliardi nelle economie occidentali. Ma ha anche cercato di ripulire la propria immagine di regime assoluto e spietato, senza alcun rispetto per libertà individuali e diritti umani. Lo ha fatto a suo modo, senza andare troppo per il sottile: MBS e il suo paese stanno cercando letteralmente di comprarsi una nuova reputazione, a suon di miliardi.

L'avventura di Al Hilal in America
Se sul campo le squadre italiane hanno già abbandonato, precocemente, la prima edizione del nuovo Mondiale per Club disputato in undici città americane (finale domenica prossima, 13 luglio), venendo eliminate agli ottavi di finale, un club saudita, l’Al Hilal, ha raggiunto il non scontato traguardo dei quarti di finale, salvo poi essere eliminato dai brasiliani della Fluminense, a loro volta sconfitti in semifinale dal Chelsea.
Se dello sforzo della Saudi League, il campionato saudita, sappiamo abbastanza, anche e soprattutto per le decine di milioni di euro che i club hanno speso per acquistare giocatori e attirare allenatori provenienti dal nostro paese, meno sappiamo di quanto è avvenuto dietro le quinte di questo mondiale.
Andiamo per ordine: l’idea di un Mondiale per club a 32 squadre allettava la FIFA, organizzazione con sede a Zurigo sulla cui trasparenza e moralità si avanzano da tempo più riserve, desiderosa di accrescere ulteriormente i propri incassi.
In sostegno dell’iniziativa, oltre agli sponsor tradizionali, si è aggiunta anche Aramco, la compagnia statale del petrolio, con un accordo che si stima quantificabile in 100 milioni di dollari per 4 anni, anche se le cifre non sono state rese note dalle parti.
Ma il percorso verso la Coppa del Mondo per club è stato tutt’altro che semplice, sia per l’oggettivo “intasamento” del calendario calcistico mondiale, sia per un sostanziale disinteresse dei club europei, che reputavano l’operazione poco interessante a livello economico.
L'influenza del fondo sovrano saudita
In questo senso il vero “cambio di passo” si è registrato alla fine del 2024, quando la FIFA si è trovata in enormi difficoltà per la cessione dei diritti tv della competizione, anche a fronte delle richieste economiche esorbitanti. Diritti tv che erano indispensabili per poter garantire alle squadre di club i ricchissimi premi economici legati alla partecipazione al torneo, unico motivo che li aveva convinti a prenderne parte. A sorpresa, il broadcaster DAZN presentò un’offerta da 1 miliardo, lontano dai 4 miliardi richiesti dalla FIFA, ma comunque decisamente superiore alle possibilità di investimento del servizio di streaming sportivo, che nel 2023 aveva fatturato 2.3 miliardi, registrando perdite per più di 1 miliardo. Pochi mesi dopo SURJ Investment Group, una controllata del fondo sovrano saudita PIF (Public Investment Fund), aveva poi comprato quote di DAZN esattamente per 1 miliardo… come diceva qualcuno, “a pensar male si fa peccato, ma…”
Lo scorso 5 giugno poi, poche settimane prima dell’inizio della competizione, PIF è intervenuta direttamente come sponsor del Mondiale per Club, diventando partner ufficiale della FIFA; anche in questo caso, le cifre, non sono note.
La “campagna acquisti” saudita del calcio globale va però ben oltre il mondiale per club. Nel 2021 PIF ha acquistato il Newcastle, club della Premier League inglese, per 400 milioni, portandolo in questa stagione alla seconda qualificazione consecutiva alla Champions League. Sono poi ancora in corso gli accordi con le federazioni italiana, avviato nel 2018, e con quella spagnola, nel 2020, per l’organizzazione di edizioni delle supercoppe nazionali proprio a Riyadh, attualmente con un formato “allargato” a più squadre, rispetto alla tradizionale sfida tra vincitore del campionato e della coppa nazionale.

E negli altri sport?
Ma il calcio è solo una piccola parte dei massicci investimenti sauditi nello sport. Nel 2021 PIF ha creato LIV Golf, un tour di eventi che sfidava direttamente il tradizionale PGA Tour, con un investimento che alla fine del 2025 dovrebbe raggiungere i 5 miliardi di dollari. Dopo essersi scontrati per mesi in tribunale, LIV e PGA avrebbero raggiunto un accordo per unirsi, anche se la conclusione della vicenda non è ancora chiara. Nello stesso anno, PIF aveva poi investito 758 milioni di dollari nel team di F1 McLaren, a cui si sommano i quasi 100 milioni investiti in un altra squadra, Aston Martin, che può contare inoltre su 30 milioni all’anno da parte di Aramco, sotto forma di sponsorizzazione. La compagnia petrolifera, inoltre, è anche uno degli sponsor principali dell’intero campionato di Formula 1.
Nelle ultime settimane poi si è tornati poi a parlare insistentemente di One Cycling, un progetto che vorrebbe portare i dollari sauditi anche nel mondo del ciclismo sfidando direttamente il monopolio dell’Unione Ciclistica Internazionale, replicando in qualche modo quanto successo già nel mondo del golf.
A lato degli investimenti diretti, aumentano anche gli eventi ospitati in territorio saudita. La corona saudita sembra essere particolarmente eclettica nei suoi gusti: oltre al calcio e al Gran Premio di Formula 1, l’Arabia Saudita ha ospitato anche diversi incontri pugilistici, un evento di wrestling con cadenza annuale e si appresta ad ospitare la Coppa d’Asia di Basket nel 2025 e quella di calcio nel 2027. Si aggiungono poi le finali WTA di tennis e il Six King Tournament, torneo di esibizione al quale partecipano i migliori giocatori del circuito maschile ATP.
Verso il 2034
Ma torniamo al calcio. L’11 dicembre scorso la FIFA ha confermato che l’Arabia Saudita organizzerà il Mondiale di calcio per nazionali del 2034.
Un’occasione unica di autopromozione per la monarchia saudita da un lato, il completamento ideale di una lunga strategia di sportwashing che, come abbiamo visto, è ormai in atto da anni e che non è destinata ad arrestarsi; un ulteriore motivo di vergogna per la FIFA, che negli ultimi anni aveva già assegnato il suo più grande evento alla Russia di Putin nel 2018 e al Qatar nel 2022. Guarda caso il Presidente della FIFA Gianni Infantino ha assegnato una valutazione di 4.2 su 5 alla candidatura saudita, il punteggio più alto mai fatto registrare. Sicuramente la valutazione non è legata alla massiccia “campagna acquisti”, o forse Infantino non è a conoscenza delle ripetute denunce nei confronti della monarchia saudita provenienti praticamente da tutte le organizzazioni internazionali. Che si tratti dei diritti dei lavoratori, delle donne, della comunità LGBT, della tutela dell’ambiente, del rispetto dei diritti umani o della possibilità di dissenso rispetto alla corona, il giudizio sulla monarchia saudita non può essere che pesantemente negativo. L’episodio del brutale assassinio di Jamal Khashoggi, che trascese i confini nazionali, non può essere considerato un caso isolato, ma è solo un esempio del modus operandi della dinastia saudita.
E faremmo bene a ricordarcelo, mentre Bin Salman è impegnato quotidianamente ad acquistare lo sport (e non solo), cercando di fare appiglio sulle nostre emozioni e sulle nostre passioni.
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