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Memorie torinesi: 70 anni dello stabilimento della Centrale del Latte

Aggiornamento: 1 ott 2022

di Vice

Oggi e domani, 1 e 2 ottobre, al Parco Rignon a Torino, si celebra con una grande festa un pezzo importante della sua storica del Novecento, del secondo dopoguerra: settant'anni fa entrava in funzione lo stabilimento della Centrale del Latte, in via Filadelfia 220. Una struttura avveniristica, nel quartiere Santa Rita, il "quartiere dei centomila", che rimane uno dei pochi esempi di architettura produttiva che a Torino non abbia subito un destino di riconversione post-industriale, risultando perfettamente idoneo al ciclo produttivo per cui fu progettato. Il 70° anniversario della Centrale del Latte di Torino ha ricevuto collaborazione di Unicef, Biblioteche civiche torinesi e il patrocinio di Circoscrizione 2, Citta di Torino, Città Metropolitana e Regione Piemonte.


In un giorno imprecisato, a cavallo tra gli anni Cinquanta e Sessanta, gli archi parabolici in cemento armato della Centrale del Latte di Torino disegnati dall'architetto Luigi Buffa, singolare effetto ottico dall'alto che aveva smosso ammirazione e fantasie infantili, scomparvero come d'incanto alla vista di chi si affacciava dai palazzi di via Barletta. O meglio, la "improvvisa" comparsa di nuovi edifici, segnalati per mesi soltanto da altre gru, cancellò quel familiare orizzonte per chi abitava in quel luogo che si spingeva a costruire un angolo geometrico con via Gorizia, che in quel periodo era ancora in corso d'opera (work in progress si direbbe oggi), dove le macchine però si scontravano all'incrocio come alle giostre di un luna park per l'assenza di un semaforo e per la scarsa dimestichezza, in un clima di impetuosa motorizzazione e di forte memoria storica, al principio del dare la precedenza a destra...

In quegli anni di travolgenti cambiamenti e trasformazioni sociali, l'urbanizzazione sospinta da potenti ondate migratorie si "mangiava" i campi delle periferie e le ultime cascine insieme con quel senso di ruralità che ancora sopravviveva nella città, capitale dell'auto. E il quartiere di Santa Rita, quartiere di collegamento tra la Crocetta e Borgo San Paolo da una parte, e Mirafiori dall'altra, era una ghiottissima opportunità di sviluppo edilizio. Del resto, al quartiere di Santa Rita, un'area a sud ovest della città che prima delle due guerre era vissuto attorno alle sue "cattedrali", l'ospedale militare del 1913 e la coeva Scuola Elementare "Giuseppe Mazzini", l'omonima chiesa eretta nel 1933 con il suo storico asilo retto dalle suore e lo Stadio Municipale "Benito Mussolini" del 1939, non si poteva che guardare con interesse per le potenzialità di collegamenti presenti e futuri ai centri nevralgici produttivi della città.

Potenzialità destinate riverberarsi anche sulla composizione della domanda di alloggi che prefigurava una tendenza interclassista, dovuto dalla progressiva presenza di strati di classe operaia (torinese e d'immigrazione), di artigiani, di piccola e media borghesia che si sovrapponevano e si integravano nel tessuto del quartiere. Una composizione sociale così eterogenea, attratta da un luogo in continua crescita demografica, dunque moderno e dinamico che si coniugava senza traumi visibili al preesistente, e vivificato da un'eta media estremamente giovane, non poteva che sollecitare al mercato edilizio un'offerta diversificata.


Un elemento, che nel tempo costituirà un punto di forza e tenuta socio-economica del quartiere di Santa Rita, che affonda le sue radici nel laboratorio sociale del quartiere: quella sorta di melting pot nazionale che aveva saputo miscelare il vecchio ceppo "indigeno" torinese agli immigrati di aree diverse del paese (pugliesi, siciliani, veneti, calabresi e di alcune provincie del Piemonte) in cui, a differenza di altri quartieri, la lingua italiana - e non i dialetti - era il denominatore comune e un valore condiviso.


Lo snodo era la relativa vicinanza alla grande fabbrica, alla Fiat di Mirafiori, che di giorno in giorno aumentava la sua forza lavoro. Lo stabilimento si raggiungeva con il tram numero 10, utilizzando la "coincidenza" del numero 9 che arrivava da Borgo Vittoria; su rotaia, in effetti, su appena due linee, comode e veloci, la città dava l'impressione di essere sempre nelle mani del quartiere di Santa Rita, sempre più animato da nuovi negozi, dallo sviluppo del mercato rionale di corso Sebastopoli, da piccole, medie fabbriche e dalle "boite" artigiane che vi si impiantavano (cartotecniche, tessili, meccaniche) destinate poi tutte a migrare nelle aree industriali della prima e seconda cintura della città a partire dagli anni Settanta.

Nello scenario degli anni Cinquanta, quasi con preveggenza sui destini del quartiere di Santa Rita, il 1° ottobre del 1952, avviene il taglio del nastro dell'attività la Centrale del Latte, un simbolo di e per Torino.

Dallo stabilimento di via Filadelfia s'inizia la distribuzione del latte su camion con cestelli che contengono il latte in bottiglie di vetro, entreranno con rapidità nell'immaginario collettivo, così come lo diventerà il lessico dei clienti in latteria, con la richiesta di un "tappo rosso" o "bianco", cioè latte scremato o intero. Il rumore dei cestelli di metallo di primo mattino e le figure dell'autista e dell'assistente al carico-scarico accompagneranno i torinesi fino alla metà degli anni Settanta, in un passaggio dal bianco e nero che non è soltanto della televisione, ma anche del nostro modo di percepire la vita.

Nel mezzo della stagione dei tetrapak e di una miriade di nuovi marchi produttori di latte, che contenderanno alla Centrale del Latte una fetta del mercato, l'evoluzione commerciale porterà a sostituire il latte in bottiglia con quello in plastica, e nello stesso tempo a diversificare la produzione nello stabilimento di via Filadelfia da quelle iniziali e mitiche 170 mila bottiglie giornaliere da un litro del 1952.



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