Meloni e l'Europa: è sincero cambio di direzione?
- Stefano Rossi
- 27 giu 2024
- Tempo di lettura: 4 min
di Stefano Rossi

Il Consiglio Europeo che si tiene oggi e domani (27 e 28 giugno 2024) a Bruxelles rappresenta un passaggio decisivo nella vita delle nostre istituzioni comuni. Nel sistema istituzionale complesso dell’UE, i negoziati in corso sui c.d. “top job” sono la cosa più simile a quello che in Italia chiamiamo “consultazioni”, ossia il processo informale mediante il quale il capo dello Stato, tenuto conto dell’esito del voto e delle indicazioni delle forze politiche, individua un possibile capo di governo che dovrà raccogliere la fiducia del Parlamento.
Dovendo spiegare in termini “familiari” quello che accade a Bruxelles, il Consiglio Europeo può essere visto come il “capo dello Stato” dell’Unione Europea che in questi giorni, sta decidendo quale candidato Presidente della Commissione Europea (il “capo di governo” dell’UE, per proseguire la metafora) proporre al voto del Parlamento europeo.
Ciò che rende questo passaggio di difficile lettura è che il Consiglio europeo, a differenza dei normali “capi di Stato”, è un organo collegiale, composto dai capi di governo degli Stati membri. Ciò significa innanzitutto che il “consultante” non è una sola persona (come in Italia sarebbe Sergio Mattarella) ma sono ben 27 persone. Quanto al “consultato”, potremmo dire che il Consiglio europeo consulta sé stesso perché al suo interno siedono individui che non rappresentano soltanto i propri governi, ma anche le famiglie politiche che si riuniranno in Parlamento. Così le danze sono state condotte da una squadra di negoziatori così composta: il premier polacco Donald Tusk (popolare), il primo ministro greco Kyriakos Mitsotakis (popolare), il cancelliere tedesco Olaf Scholz (socialista), il premier spagnolo Pedro Sánchez (socialista), il presidente francese Emmanuel Macron (liberale) e l'ex premier olandese Mark Rutte (liberale), tra l'altro destinato a segretario generale della Nato. La composizione di questa squadra non riflette tanto la dimensione nazionale, ma piuttosto quella politica dei membri che la compongono: vi sono infatti i rappresentanti di quelle forze politiche che cercano di costruire una maggioranza a sostegno della prossima Commissione. Poiché Fratelli d’Italia siede nel gruppo ECR, al momento fuori dai giochi della maggioranza, Giorgia Meloni non è stata inclusa in queste negoziazioni.
La scelta di escludere i conservatori dell’ECR è frutto, da un lato, dell’aut aut posto dai socialisti, che hanno dichiarato di non voler far parte in una maggioranza insieme a ECR, e dall’altro dalla fiducia che ripongono socialisti, liberali e popolari di avere i numeri per sostenere Ursula von der Leyen al voto in Parlamento. I numeri in effetti ci sono (399 voti rispetto a una maggioranza richiesta di 360), ma bisogna ricordare che il voto è segreto e che nel 2019 molti franchi tiratori misero a rischio l’elezione di von der Leyen (all’epoca eletta con pochissimi voti di scarto, nonostante le tre forze di maggioranza avessero 444 seggi).
In questo quadro deve leggersi la comunicazione alle Camere fatta ieri da Giorgia Meloni. Un discorso che in parte stupisce per la vena fortemente europeista. La Presidente del Consiglio ha iniziato il proprio discorso ricordando i successi dell’integrazione europea in termini di pace, crescita e sviluppo, ribaltando completamente la narrazione euroscettica. Ha poi sottolineato come l’UE debba adeguare la propria strategia al mondo che cambia, diventando un “gigante politico” dotato di autonomia strategica, capace di un grande piano di investimenti pubblici per la competitività e la transizione energetica, e di stimolare gli investimenti privati (riprendendo un concetto cardine del rapporto Letta sul mercato interno). Ha auspicato poi la creazione di una politica di sicurezza e di difesa capace di difendere la sovranità europea e di costituire il pilastro europeo della NATO, ribadendo il pieno sostegno alla causa Ucraina e alla soluzione “due popoli due Stati” per il Medio Oriente.
Come sintetizzato dalla presidente del Consiglio italiano, il suo programma è un’Europa che faccia “meno” (limitando burocrazia e regolamentazione) e che faccia “meglio” (aumentando poteri e efficacia delle politiche). Resta da capire come e entro che limiti il “fare meglio” richieda secondo Meloni coraggiose riforme istituzionali dell’UE – che trasferirebbero più competenze a livello europeo in ambito di politica estera e di sicurezza, industriale e ambientale – e la creazione di nuove risorse proprie che finirebbero per trasferire capacità di spesa, e quindi potere, dal livello nazionale a quello europeo.
Allo stesso tempo, la Presidente del Consiglio ha criticato la scelta di replicare una maggioranza “Ursula” escludendo le forze politiche come l’ECR che hanno guadagnato seggi alle elezioni, accusando socialisti, liberali e popolari (con cui, ricordiamo, governa in Italia) di non rispettare l’esito delle urne. L’ha fatto nella consapevolezza che senza i voti di ECR, diventato il terzo gruppo parlamentare, la rielezione di von der Leyen si giocherà sul filo del rasoio dei franchi tiratori.
Meloni comprende che per puntare alla maggioranza di governo in Europa deve mostrarsi credibile e affidabile, con un’agenda che punti al rafforzamento dell’Unione (la creazione di un “gigante politico” come lei l’ha definito) e non alla sua dissoluzione. E così ha smontato pezzo per pezzo la retorica euroscettica, che fino a pochi anni fa abbracciava proponendo addirittura l’uscita dall’Euro. D’altra parte, lo slittamento tettonico della destra europea da posizioni fortemente euroscettiche a posizioni “riformiste” è un fenomeno che è iniziato con la tragica lezione della Brexit e che sta diventando un passaggio obbligato per tutte le forze di destra che ambiscono a posizioni di governo (l’unico che ancora non l’ha capito è Matteo Salvini, e i risultati si vedono). La realtà, insomma, conta ancora qualcosa.
I prossimi mesi saranno decisivi per capire quanto sia profondo (o superficiale) il cambiamento di rotta della leader di Fratelli d'Italia: lo capiremo dalla posizione che assumerà il governo italiano sul tavolo delle nomine europee, ma anche dalla prossima manovra di bilancio che pone più di una sfida – non da ultimo, sciogliere finalmente il nodo del MES [1], su cui le forze di maggioranza si sono incartate.
Note
Comments