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Lo scontro sui tre mandati: una proposta controcorrente

Mercedes Bresso

di Mercedes Bresso


Le polemiche fra sindaci o presidenti di regioni e il mondo politico romano, sono annose e credo stufino gli elettori che non ne comprendono spesso le ragioni, che ora provo ad argomentare da ex presidente di regione (non governatrice, faccio notare che in nessun testo siamo definiti così e che il nome viene dai governatori degli Stati americani e che  deriva dal passato coloniale, quando venivano nominati.)

Tutto nasce dal fatto che nei comuni e nelle province c’erano spesso delle crisi, quando l’elezione veniva fatta dai Consigli. Così venne l’idea di imitare, credo, il modello americano dell’elezione diretta, attribuendo anche al candidato vincitore un premio di maggioranza per assicurarne la stabilità. Inoltre la dimissione del sindaco o  del presidente avrebbe comportato lo scioglimento automatico del Consiglio, il che costituiva un ulteriore freno alle crisi.

Per Comuni e Province era previsto il ballottaggio fra i primi due arrivati nel caso in cui nessun candidato avesse superato il 50%, in modo da rafforzare la legittimità democratica dell’elezione.

Una norma analoga venne prevista per le Regioni, con la differenza che le elezioni vennero stabilite a turno unico con la conseguenza che il premio di maggioranza di fatto può venire attribuito anche a candidati che abbiano vinto con percentuali basse, cosa che può succedere se i candidati sono molti. E questo era il primo pasticcio.

Per tutti, sindaci e presidenti, eletti in questo modo venne stabilito un limite massimo di due mandati In base al principio che si configurava una sorta di potere assoluto troppo forte, limite che successivamente fu eliminato per i piccoli comuni al di sotto dei diecimila abitanti per i quali era spesso difficile persino trovare i candidati e non sembrava quindi che esistesse un potere eccessivo.

Per quanto riguarda le Regioni, dopo la riforma costituzionale del 2001 che attribuiva loro molti nuovi poteri, ci si rese conto che per rendere effettiva la regola dei due mandati occorreva una legge nazionale di indirizzo per le Regioni, che avrebbero dovuto recepirla con proprie leggi. Questa è la legge 165 del 2004, che appunto prevede l’obbligo di introdurre nelle leggi regionali (la legge elettorale spetta alle Regioni nel rispetto di quella nazionale) il vincolo dei due mandati per i presidenti. La comune interpretazione della legge è che una legge regionale di attuazione della 165, anche solo per alcuni dettagli, configuri implicitamente anche l’introduzione del vincolo dei due mandati.

Per esempio, il Piemonte ha recepito il vincolo durante il mio mandato, il che aveva consentito nel 2005 a Enzo Ghigo di presentarsi per la terza volta contro di me, dopo la sfida del 1995 con Giuseppe Pichetto e nel 2000 con Livia Turco.

Come tutti abbiamo letto recentemente, sia il Presidente del Veneto Luca Zaia, sia quello della Campania Vincenzo De Luca, insieme a molti sindaci, rivendicano il diritto a candidarsi per la terza o quarta volta e, nel caso di De Luca anche sulla base del fatto che la Campania, pur avendo adottato nel 2009 una legge di recepimento della 165, non aveva esplicitamente previsto il vincolo dei due mandati. Ha anche fatto ricorso alla Corte Costituzionale e vedremo. Tuttavia sembra poco probabile che possa vincere.

Resta quindi la domanda, che ha posto anche Zaia: perché quando in Parlamento ci sono politici eletti da magari trent’anni sindaci e presidenti devono avere il vincolo di due? La risposta storica è che la legge fu fatta imitando le elezioni americane (l’altro caso è il vincolo di due mandati per il Presidente francese), ma in effetti appare molto sproporzionata, non si può certo dire che il potere di sindaci e presidenti di Regioni sia così spropositato, non hanno ad esempio poteri fiscali, i loro bilanci dipendono in larga parte dallo Stato e tutte le leggi sono inquadrate da norme nazionali. Nel caso dei sindaci, anzi, i poteri sono insufficienti rispetto alle responsabilità. E non risulta che nessun presidente o sindaco abbia poi fatto strepitose carriere a livello nazionale. Il potere resta ben stretto nelle mani di coloro che si trovano a Roma.

L’unica vera spiegazione è la paura che ebbero e hanno i parlamentari rispetto alla visibilità mediatica e alla forza elettorale di persone elette direttamente a fronte di rappresentanti nazionali che spesso non hanno mai partecipato a elezioni con preferenze e non sono quindi conosciuti dai loro rappresentati.

A mio avviso il vero potere di sindaci e presidenti è piuttosto nei confronti dei loro consiglieri grazie al potere delle dimissioni che provocano lo scioglimento dei Consigli stessi. E consiste anche nel rapporto diretto con gli elettori che rende più difficile sostituirli alla maggioranza e batterli all’opposizione.

Allora la soluzione potrebbe essere tornare al proporzionale con magari la possibilità (o l’obbligo) di indicare il candidato sindaco o presidente sulla scheda elettorale. Si potrebbe anche prevedere un premio di maggioranza per la coalizione vincente preferibilmente dopo ballottaggio fra i primi due.

E si potrebbe riportare l’elezione del sindaco e del presidente ai Consigli comunali e regionali. Sarebbe difficile non eleggere per la maggioranza il candidato indicato agli elettori, ma la legittimazione finale sarebbe delle assemblee, che ne sarebbero rafforzate, acquisendo maggiore potere e dignità.

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