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Lear e Te Connectivity: crisi aziendale e impatto sociale


Quali sono gli impatti sociali di una chiusura aziendale? Una domanda solo apparentemente scontata: quando uno stabilimento chiude siamo abituati a concentrarci solo sulle conseguenze economiche dirette, legate alla perdita di posti di lavoro, ma spesso sottovalutiamo gli impatti negativi non solo per la vita dei lavoratori e per le loro famiglie, ma per l’intero tessuto socio-economico

Il progetto “valutazione di impatto della chiusura di due stabilimenti industriali e creazione di un modello di monitoraggio” è nato proprio per colmare questa lacuna; fortemente voluto da CGIL e FIOM, finanziato dalla Camera di Commercio di Torino nell’ambito di Torino Social Impact, la ricerca è stata realizzata dal CeVIS, il Centro di Competenze per la Misurazione e Valutazione dell’Impatto Sociale. Al termine di un lavoro di analisi durato alcuni mesi, martedì, 18 marzo, i risultati sono stati presentati presso la sede della FIOM Torino. Il progetto risponde ad un’esigenza profonda del territorio torinese. E come ha sottolineato il Segretario Generale di FIOM Torino Edi Lazzi, dal 2008 ad oggi sono state ben 500 le aziende chiuse, con più di 30.000 persone che hanno perso il lavoro solo nel settore metalmeccanico.

Per sviluppare un modello di misurazione dell’impatto sociale negativo delle chiusure aziendali, si è scelto di partire da due casi-studio concreti, quelli di LEAR e TE Connectivity.[1]

Attraverso l’analisi dei dati e le interviste a tutti i soggetti coinvolti, a partire dai lavoratori, si è giunti ad una misurazione precisa delle conseguenze di queste due chiusure, con la sistematizzazione di un modello che possa essere utile, in futuro, non solo ex-post, ma soprattutto nelle fasi più critiche di una crisi poiché, ha ricordato Federico Bellono, Segretario Generale della CGIL Torino, “la ricerca è una sperimentazione, che può diventare uno degli strumenti dell’azione sindacale.”


Seicento persone coinvolte

Le due chiusure aziendali analizzate coinvolgono direttamente 600 persone, 380 dipendenti LEAR e 220 di TE Connectivity. La fotografia che emerge dagli studi di caso è drammatica: il 45% dei dipendenti LEAR e il 37% di quelli di TE Connectivity appartengono a famiglie monoreddito, che hanno visto la loro condizione economica peggiorare drasticamente.

Ma, come si diceva, le conseguenze delle chiusure non sono solo economiche: dal punto di vista della salute psicofisica, il 36% degli intervistati infatti segnala sintomi di ansia o depressione; la perdita del lavoro poi produce anche una forte sfiducia nel futuro, dato che solo il 12% dei lavoratori si considera facilmente reimpiegabile. Un dato ancora più preoccupante se consideriamo che al 95% dei dipendenti LEAR e all’83% di quelli di TE Connectivity mancano ancora tra i 6 e i 10 anni per raggiungere l’età pensionabile, e che quindi un loro reinserimento lavorativo è indispensabile.

Un altro dato interessante è quello legato alla coesione sociale, che ovviamente risente fortemente delle crisi aziendali: il 40% dei lavoratori e delle lavoratrici ha ridotto la sua partecipazione alle attività sociali ed associative, aumentando quindi il suo isolamento; ma soprattutto è significativo notare che 2 dipendenti su 3 dichiarano di non sentirsi tutelati dalle istituzioni.

Sono particolarmente interessanti anche gli impatti misurati sulle istituzioni e sulle comunità locali. Prima di tutto, i Sindaci dei due comuni coinvolti, Grugliasco e Collegno, segnalano le difficoltà delle amministrazioni locali nell’intervenire in questi casi, e sottolineano che senza interventi mirati il rischio di creare “vuoti urbani” è molto alto. A fronte di politiche industriali regionali che vengono ritenute non adeguate, poi, le persone percepiscono una mancanza di tutela, che come detto alimenta la sfiducia verso le istituzioni.


La risposta istituzionale

L’aumento della precarietà provoca, naturalmente, un incremento della pressione sui servizi sociali, ed espone le famiglie al rischio povertà, nonostante gli ammortizzatori sociali. I lavoratori, che in questo caso erano abituati a contesti strutturati come quelli di due multinazionali, hanno inoltre enormi difficoltà nel ricollocarsi in altre aziende, spesso più piccole; al tempo stesso i datori di lavoro, che pur avrebbero bisogno delle loro competenze, denunciano la difficoltà nell’entrare in contatto con questi lavoratori, a causa dell’assenza di “banche dati” relative ai lavoratori in cassa integrazione. In alcuni casi, poi, le aziende presenti sul territorio non sono in grado di offrire incentivi economici adeguati alle competenze e all’esperienza dei lavoratori.

Il cambiamento di paradigma proposto dalla ricerca suggerisce di passare da un approccio emergenziale a uno preventivo, con un maggiore dialogo tra aziende, istituzioni e comunità, per mitigare gli impatti negativi e favorire una transizione più sostenibile per lavoratori e territori.

Una prima tappa importante di questo dialogo si è tenuta proprio al termine della presentazione dei risultati della ricerca: il Segretario della CGIL Federico Bellono, il Presidente della Camera di Commercio di Torino Dario Gallina, il Presidente dell’Unione Industriali di Torino Marco Gay e il Presidente del Patto Territoriale Nord-Ovest Umberto d’Ottavio infatti hanno partecipato ad una tavola rotonda per discutere, ad ampio raggio, del tema delle dismissioni industriali che il territorio piemontese, e quello torinese in particolare, stanno affrontando.

Tra i molti elementi interessanti emersi dal confronto, vale la pena sottolinearne uno: la forte richiesta, collettiva e condivisa, di aprire un tavolo di confronto regionale sul tema, con l’Assessorato Competente, in previsione di una fase difficile che probabilmente investirà il territorio nei prossimi mesi, nei quali, sfortunatamente, si prospettano altre, dolorose, crisi industriali.


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