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SETTIMANA FINANZIARIA Mediobanca, flop annunciato

a cura di Stefano E. Rossi


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Era una bella idea, quella di Alberto Nagel. Far assurgere Mediobanca a secondo polo del wealth management in Italia, al seguito di Intesa Sanpaolo. Ma il progetto di offerta pubblica di scambio sulla totalità delle azioni di Banca Generali, annunciato dal CEO in conference call il 27 aprile scorso, doveva passare il vaglio dell’assemblea dei soci, che si è tenuta giovedì 21. E i soci si sono espressi: 35% favorevoli (tra cui Blackrock e il fondo pensione di Norges Bank), 10% contrari (Caltagirone), 32% contrari (dei quali il 20% è della Delfin di Del Vecchio). I gruppi finanziari in mano privata italiana hanno fatto più i loro interessi personali, che quelli della banca d’affari di piazzetta Cuccia.


Scalata Generali: mossa affrettata e di ripiego  

Una domanda è d’obbligo. Chissà se lui, il sempre compianto Enrico Cuccia, si sarebbe lasciato attirare da questo azzardo. Infatti, perché il cosiddetto trappolone era dietro l’angolo o, quantomeno, era prevedibile. Riprendiamo le fila della vicenda con ordine. Sin dai primi annunci, la mossa di acquistare Banca Generali era apparsa a tutti come un affrettato ripiego. Non si possono lanciare propositi di neo-protagonismo solo quando ci si accorge di essere in difficoltà, solo per uscire dall’angolo al quale si è costretti dalle mosse della concorrenza. Infatti, la comunicazione era arrivata solo a valle della discussa (e discutibile) scalata ordita a fine gennaio da Banca Mps a Mediobanca.

Viene da immaginare che l’integrazione Mediobanca-Banca Generali fosse già da tempo nella mente di qualche illuminato dirigente, forse proprio in quella di Nagel. Però, in tempi di tiri in porta falliti e di repentini contropiedi, ai quali ci ha abituato la finanza bancaria, le mosse di rincalzo non sempre pagano: è meglio fare il primo passo.

Ad ogni buon conto, non stupisce che anche le menti più raffinate si trovino spiazzate da questa eccessiva dinamicità del settore. Del resto, finora le banche erano state chiamate solo per salvarne altre dai dissesti. Mai avevano pensato di incrociare le lame per lanciare offerte ostili. Almeno fino a quando, nel 2020, Intesa Sanpaolo non aveva inaugurato la stagione con quella su Ubi Banca.

 

Salviamo il soldato Intel...

E intanto, in America si discute seriamente di nazionalizzazione. Abbiamo capito bene! A parlarne sono proprio gli Stati Uniti della new golden age di Trump (la nuova età dell’oro, come lui stesso si era affrettato a definirla all’indomani della sua rielezione). L’argomento di cui si tratta è il salvataggio di Intel. Il colosso dei microchip è in profonda crisi e tutta la Silicon Valley è in allarme. L’incontro tra il CEO Lip-Bu Tan e il Presidente Trump risale a dieci giorni fa. Gli investitori ora temono che l’eventuale assegno staccato dallo Zio Sam per salvare l’azienda, intorno al 10% del capitale, non possa essere risolutivo. Dopo aver bruciato 40 miliardi di dollari di marginalità operativa durante lo scorso triennio, si stima un risultato negativo di 7 miliardi di dollari anche per quest’anno.

Pare comunque incredibile che, nella patria del capitalismo e del principio della libera concorrenza privata, si possa affermare un principio da stato socialista. Ma, oggi più che mai, sulle questioni di principio può prevalere la difesa di un settore cruciale, come quello dei semiconduttori, oltre all’intero sistema dell’alta tecnologia digitale. In passato si erano già verificati alcuni isolati esempi di presenza del capitale pubblico nelle imprese. L’eccezione più declamata risale alla crisi finanziaria del 2008, quando lo stato intervenne, con una partecipazione minoritaria e temporanea, per salvare General Motors e Citigroup. Allora, si interveniva a difesa dei livelli occupazionali, oltre che di due settori ritenuti strategici. Ma ai nostri tempi, cioè quelli di una nuova rivoluzione industriale guidata dall’intelligenza artificiale, il primato da difendere diventa quasi esistenziale. Occorre continuare a schiacciare l’Europa con un incolmabile gap da dipendenza tecnologica e mantenere a debita distanza i continui attacchi alla supremazia Usa da parte delle vivaci imprese hi-tech cinesi.

Il peso dello Stato alla Borsa di New York è irrilevante e non censito. Per contro, in Italia corrisponde a circa il 30% dell’intera capitalizzazione di borsa e le performance finanziarie del primo semestre di quest’anno sono risultate ben superiori rispetto a quelle del comparto privato. Quindi, anche per Intel, mai dire mai.

 

Jerome Powell non delude, a parte Trump...

Venerdì a Wall Street tutti aspettavano le dichiarazioni del presidente FED, Jerome Powell, all’annuale Simposio Economico di Jackson Hole, che si era aperto giovedì 21. E lui non ha deluso nessuno: La stabilità del tasso di disoccupazione e di altri indicatori del mercato del lavoro ci consentono di procedere con cautela nel valutare eventuali modifiche al nostro orientamento politico. Tuttavia, con la politica monetaria in territorio restrittivo, le prospettive di base e il mutevole equilibrio dei rischi potrebbero giustificare un adeguamento del nostro orientamento politico. 

Traduzione: cautela, ma con prospettive di adeguamento al ribasso dei tassi. Inoltre, nella stessa sede è stato rivisto alla radice l’impianto strategico della politica monetaria di lungo termine, riducendo la rilevanza del contrasto all’inflazione. Le borse sono schizzate all’insù in poche ore. In particolar modo le quotazioni dei titoli industriali, che avevano già anticipato il trend la scorsa settimana e hanno così raggiunto nuovi valori massimi.

 

Il dollaro questa settimana ha mantenuto un andamento incerto. Alla fine si è attestato nuovamente a 1,17 verso l’euro. Calma piatta sui mercati delle commodities, le borse merci. A parte il caffè. La quotazione della robusta a Londra è salita in dieci giorni del +33%. L’improvviso rincaro è imputato alle piogge torrenziali in Brasile e alla siccità di Vietnam, paesi d’origine della coltura. I raccolti si direbbero compromessi.

Però, dietro il fenomeno potrebbe esserci la solita mano della speculazione. Le piogge sono avvenute a inizio anno e la siccità era prevista. Entrambi i fenomeni, dovuti all’emergenza climatica, si stanno ormai ripetendo da tempo, praticamente tutti gli anni. Invece, più realistiche, anche queste da un po’ di tempo, sono le difficoltà di transito nel canale di Suez. Qui il problema è la crisi mediorientale, che obbliga le navi a imprevisti stazionamenti nei porti intermedi.

Comunque, qualche quotazione bisognava pur muoverla a favore di speculazione, visto che l’oro è fermo a 3.350 dollari l’oncia e anche il petrolio greggio è stabile: galleggia intorno a quota 63,50 dollari al barile.

 

Piazza Affari è ormai senza freni: nuovo record! L’indice FTSE- MIB venerdì supera di slancio quota 43 mila. Ma attenti a farsi prendere dai facili entusiasmi, specie per le decisioni fai-da-te.

Nel dettaglio, salgono tutti i titoli, ma senza particolari clamori o performance d’eccezione o degne d’evidenza. Pochi i ribassi e, comunque, di portata contenuta.


Il Borsino della settimana – rassegna dei migliori e dei peggiori titoli del listino FTSE MIB

I Tori: ERG +6,37%, STMicroelectronics +5,92%,

Gli Orsi: Leonardo -0,94%, Iveco -0,05%

FTSE MIB: +1,54% (valore indice: 43.310)


I presenti commenti di mercato rivestono un esclusivo scopo informativo e non intendono costituire

una raccomandazione per alcun investimento o strategia d’investimento specifica. Le opinioni

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