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La Spoon river dell'Altipiano di Mario Rigoni Stern

di Marco Travaglini


E' passato quasi sotto silenzio l'anniversario della morte di Mario Rigoni Stern, uno dei più grandi narratori italiani. Lo scrittore morì quindici anni fa, il 16 giugno del 2008, dopo alcuni mesi di malattia, nel letto della sua casa di Asiago. Aveva ottantasei anni. Era un lunedì sera e per sua precisa disposizione la notizia della morte venne diffusa solo a funerali avvenuti, il giorno dopo, nella piccola chiesa del centro dell’altopiano dei Sette Comuni. A salutare il feretro c’erano la moglie Anna, i tre figli con i due nipoti e il fratello Aldo. Poche persone, raccolte nella cappella come desiderava il “sergente nella neve”. Al mesto rintocco del Matìo, il campanone di Asiago, toccò l’ultimo saluto. Ora è sepolto nel cimitero a sud del paese, sotto una grande croce di marmo chiaro che lui stesso aveva voluto recuperare dall’ultima dimora del nonno paterno Giovanni Antonio. Sulla tomba una piccola aiuola coltivata, per certi versi simile a quella della teologa e scrittrice Adriana Zarri a Crotte di Strambino, nella campagna canavesana.

Rammento che una sera a Falmenta in valle Cannobina, a ridosso del confine con la Svizzera, in una serata in suo ricordo passata insieme a un suo dei suoi più grandi amici , il maestro Bepi De Marzi, quest’ultimo avanzò l’ipotesi che l’ultima dimora ad Asiago fosse un cenotafio, una tomba vuota, immaginando che le ceneri dello scrittore fossero state disperse nella steppa russa dove riposavano i suoi commilitoni dei reparti alpini che persero la vita nella tragica ritirata di Russia durante la Seconda guerra mondiale. Ovviamente si trattava solo un’ipotesi, per quanto suggestiva. Mario Rigoni Stern nel 1973 pubblicò una raccolta di racconti intitolata Ritorno sul Don. Scrisse, nell’occasione: “Ecco, sono ritornato a casa ancora una volta; ma ora so che laggiù, quello tra il Donetz e il Don, è diventato il posto più tranquillo del mondo. C’è una grande pace, un grande silenzio, un’infinita dolcezza. La finestra della mia stanza inquadra boschi e montagne, ma lontano, oltre le Alpi, le pianure, i grandi fiumi, vedo sempre quei villaggi e quelle pianure dove dormono nella loro pace i nostri compagni che non sono tornati a baita”.

L’intera sua vita fu segnata dai ricordi di quella guerra, del gelo della steppa nella sacca del Don, dal calore umano che trovò nelle isbe anche con i nemici. Ricordi che si mescolarono con l’amore per la montagna e le vicende delle genti che la vivevano. Nel 1938, a diciassette anni (“Sull’Altipiano, per noi ragazzi c’era un detto: o prete, o frate, o fuori con le vacche”) entrò alla Scuola Militare d’alpinismo di Aosta, quindi combatté come alpino nel battaglione Vestone in Francia, Grecia, Albania, Russia. Fatto prigioniero dai tedeschi dopo l’armistizio dell’8 settembre, rientrò a casa a piedi, dopo due anni di lager in Lituania, Slesia e Stiria il 5 maggio del 1945. Da quel momento non lasciò più il suo Altopiano, dove viveva nella casa che si era costruito da solo, insieme alla moglie Anna e ai tre figli. Ad Asiago lavorò al catasto comunale, mantenendo l’impiego fino al 1970, quando decide di dedicarsi completamente al lavoro di scrittore. Fu Elio Vittorini, nel 1953, a fargli pubblicare per la collana I Gettoni di Einaudi il suo primo romanzo, Il sergente nella neve. Poco meno di dieci anni dopo, nel 1962 pubblicò il secondo, Il bosco degli urogalli, sempre per Einaudi. Tanti altri seguirono fino a Stagioni, l’ultimo romanzo uscito nel 2006, due anni prima della scomparsa. Mario più volte affrontò l’argomento della morte, sottolineando come questa non gli incutesse paura. “La vita si sa che deve finire, ma io non vivo questa consapevolezza con angoscia” raccontò in una intervista per il suo 85esimo compleanno. “Semmai può spaventare la sofferenza fisica, perché a volte il dolore umilia, non lascia all’uomo nemmeno la possibilità di pensare. Ma è un’età, la mia, che va affrontata avendo la coscienza del limite”.

D’altronde la morte si era sempre intrecciata alle vicende della sua vita, se non altro per la coincidenza che l’aveva visto venire al mondo (e quindi festeggiare il proprio compleanno) il primo novembre del 1921, giorno dei morti. Chi lo conosceva bene (come il giornalista Sergio Frigo che ha curato il volume I luoghi di Mario Rigoni Stern o Giuseppe Mendicino con il ritratto edito da Laterza) ha confermato come fosse un assiduo frequentatore del cimitero, dove si aggirava tra le tombe ricordando i familiari e i compaesani che se n’erano andati tra nostalgia, affetto e persino qualche sorriso. In un suo racconto narrò l’episodio dei ragazzini che andavano di tomba in tomba per raccogliere la cera sciolta delle candele, riutilizzandola come sciolina per gli sci.

Nella mia Spoon River paesana ritrovo le persone scomparse e rivivo le loro storie dimenticate”, confessò in un’intervista a Frigo. In Stagioni raccontava di “una passeggiata al cimitero in un giorno di primavera”, tra le tombe dei genitori e della vecchia maestra, dei fratelli e degli amici che l’hanno preceduto, delle “ragazze con le quali cacciavo le farfalle” e della “guardia comunale che ci faceva correre quando eravamo troppo invadenti”. Tutto questo, ammoniva “non è greve; è invece ritrovare memorie e dolce malinconia, non memorie cattive o fastidiose, o sensi di rabbia, o di rammarico per eventuali torti subiti”. Nel libro Tra le due guerre, silloge di articoli inediti e non, dedicati in gran parte ai conflitti, scriveva nel capitolo intitolato Il giorno dei morti: “Negli ultimi giorni d’ottobre, nel pomeriggio appena ritornati dalla scuola, invece di salire ai roccoli (…) andavamo a piccole frotte al cimitero per ripulire dalle erbacce le tombe dei parenti (…) Nel pomeriggio del primo novembre venivano accesi sulle tombe tanti lumini, venivano anche posati bene in vista i ritratti dei defunti ivi sepolti, e ghirlande intrecciate con rami d’edera, e fiori di latta smaltata a vivaci colori (…) Nelle sere del primo e del due novembre nessuno usciva di casa, nemmeno i più accaniti giocatori di carte (…)Forse oggi è tutto più banale. Anche il cimitero si è molto ampliato perché i nuovi ricchi vogliono tutti la tomba di famiglia o la cappella gentilizia, con marmi lucidati, e statue, e luci splendenti; le tombe con piccole aiuole coltivate a fiori sono molto poche perché quasi tutte hanno lastre di marmo e fiori di plastica”.

Forse è anche per questo che ha voluto che la sua ultima dimora fosse al riparo di quella piccola aiuola coltivata con fiori veri, profumati e freschi, accarezzati dal vento delle sue montagne.



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