L'INCHIESTA. Rider and affini, i nuovi "schiavi" dell'algoritmo
Aggiornamento: 20 feb 2024
di Dunia Astrologo

Sembra assai difficile che i cosiddetti lavoratori delle piattaforme o gig workers possano vedere riconosciuto il loro status di lavoratori subordinati e il loro diritto a essere tutelati da regolari contratti. Infatti ancora una volta una direttiva dell’Unione Europea, volta a riconoscere loro i diritti e il trattamento da lavoratori dipendenti è saltata la settimana scorsa, per l’opposizione di almeno quattro membri della UE, Francia, Germania, Grecia e Lettonia [1]. La relatrice della proposta, Elisabetta Gualmini, eurodeputata del PD, definisce tale opposizione come incomprensibile. E se non la comprende lei, che siede al Parlamento europeo, ancor meno può riuscire nell'intento il cosiddetto "uomo della strada", se non pensando alla diffusione del fenomeno, probabilmente molto ampia in quei paesi, dove tra l’altro i giganti delle piattaforme hanno un peso non indifferente sul piano economico, e quindi politico.
Un esercito di 28 milioni di lavoratori
È un fenomeno straordinariamente e imprevedibilmente consistente: sono 28 milioni (sì, avete letto bene) i gig workers in Europa, ovvero il 17% di tutti gli occupati. Ma chi sono di fatto questi operatori? Una descrizione analitica del mondo della platform economy è contenuta in un interessante rapporto ILO del 2022 [2]. In sintesi sono persone che svolgono lavori temporanei, occasionali o come free lance, caratterizzati da pochissime o nulle tutele, massima flessibilità soprattutto dal lato di chi acquista il loro tempo di lavoro, e nella quasi totalità governati da piattaforme digitali che stabiliscono tempi, tipo, logistica, insomma tutte le modalità della prestazione da erogare.
Sono in prevalenza (2/3) maschi, anche se nella maggior parte dei lavori del genere “smart working” le proporzioni si ribaltano “a favore” delle donne. Sono generalmente giovani, al di sotto dei 35 anni, e con un livello di istruzione mediamente più alto di quello di altri tipi di lavoratori. Per essere concreti, si tratta in primo luogo dei riders, che fanno consegne di cibo o altri beni, ma anche degli autisti di piattaforme tipo Uber, liberi di circolare in quasi tutta Europa (mentre in Italia no, perché da noi la lobby dei taxisti è molto potente); ma poi dobbiamo considerare anche tutte le persone che sviluppano prodotti/servizi nel campo del marketing, dell’informatica, del content management, delle traduzioni, del design e della produzione di testi ecc., che lavorano essenzialmente per proprio conto, tutto il tempo davanti a un computer, sulla base di commesse temporanee e occasionali[3].
Il potere incontrollato delle piattaforme
I lavoratori che dipendono direttamente dalle piattaforme sono dunque un sotto-insieme di questa massa di persone: si calcola che, sempre in Europa, siano 5,5 milioni. Non uno scherzo. E tutti loro, indistintamente, vengono considerati come lavoratori autonomi, con tutte le conseguenze di aleatorietà e mancanza di tutela giuridico-economica, sebbene sia chiaro che si tratta di una autonomia del tutto fittizia. Certo, per molte persone fare questo tipo di mestiere è una scelta: consente la massima flessibilità (apparente?) quindi la libertà di fare altro, di utilizzare il proprio tempo di vita anche per studiare, per le attività di cura o anche, perché no, per lo svago. Ma per la maggior parte di loro (oltre il 50%secondo la ricerca citata) si tratta invece di una scelta obbligata, in mancanza di occasioni di lavoro stabili e tutelate e per la totalità o quasi (80% almeno) rappresenta la principale o unica fonte di reddito. Un reddito che, si calcola, per i rider si aggira attorno ai 4€ l’ora e poiché le ore di lavoro sono strettamente collegate al numero di consegne (di fatto si tratta di lavoro a cottimo) consegne che hanno picchi solo in determinate fasce di orari, il compenso a fine giornata, se si è riusciti a fare il massimo delle consegne, non supera i 40€.
La direttiva europea mirava proprio a trasformare il rapporto tra i gestori delle piattaforme e chi per esse lavora in un rapporto contrattualmente regolato, quando vi siano evidenti caratteristiche di subordinazione, come nel caso che si presentino “fatti indicanti controllo e direzione, secondo la normativa nazionale e i contratti collettivi vigenti”, ovvero quando è chiaro che questi lavoratori, affatto autonomi, sono controllati, diretti, sottoposti a norme organizzative e orari/tempi di lavoro stabiliti dalle piattaforme stesse.
Un mercato di 492 miliardi di dollari
E se c’è una porzione così ampia di lavoratori che, oltre a non essere tutelati da regolari contratti, sono quasi sempre sottopagati, sorge il sospetto che le piattaforme, ovvero le grandi multinazionali digitali che operano nel settore, abbiano ricavi piuttosto ragguardevoli. Sospetto confermato da questi dati, presentati dal Sole 24Ore[4]: l’economia delle piattaforme nel suo complesso - comprendendovi quindi anche turismo e commercio digitali - prima della pandemia, nel 2020, valeva “solo” 14 Mdi di €, per 2/3 ricavati proprio nel food delivery e nella mobilità.
Uno studio di Accenture però ha rilevato all’inizio del 2022 un balzo in avanti impressionante: 492 Mdi di $ sono stati quell'anno i ricavi del social commerce a livello mondiale, ricavi che potrebbero triplicarsi entro il 2025. Il segmento delle piattaforme di servizi (platform as a service) - quelle che impiegano i rider, i tassisti, e simili- nel 2023 dovrebbe aver raggiunto, secondo un altro istituto di ricerca, Statista, i 113 Mdi con prospettive di crescita fino a 210 Mdi di $, concentrati principalmente negli USA. Ma la diffusione di queste piattaforme è molto consistente anche in Europa, dove operano almeno 500 aziende del settore. Uno studio specifico e approfondito per l’Italia ancora non c’è, anche se alcune ricerche[5] stimano che i lavoratori delle piattaforme di servizi siano circa 600mila.
Ma anche senza analisi scientifiche la situazione di questi lavoratori può essere narrata in altro modo: il bellissimo film[6] di Pif, ovvero Pierfrancesco Diliberto, che racconta in modo assai efficace la vita di un rider e di riflettere insieme se abbia un senso che qualcuno si opponga a riconoscere a questi lavoratori, veri e propri schiavi dell’algoritmo, i diritti e la dignità che tutti gli altri lavoratori hanno, o dovrebbero avere. E anche se il vero pericolo per il futuro del lavoro sia l'Intelligenza artificiale, quando già da anni il digitale “old style” di diseguaglianze e altri danni ne sta provocando già tanti.
Note
[1] https://www.eunews.it/2024/02/16/riders-diritti-ue-lavoratori-digitali/; https://www.laportadivetro.com/post/orizzonti-d-europa-elezioni-sulle-note-della-pop-music
[2] https://www.ilo.org/wcmsp5/groups/public/---ed_norm/--relconf/documents/meetingdocument/wcms_855048.pdf
[3] Una descrizione accurata è contenuta qui: https://inhrgroup.it/2023/09/21/gig-economy-il-futuro-del-lavoro-o-una-nuova-precarieta/
[5]https://oa.inapp.org/xmlui/bitstream/handle/20.500.12916/3406/INAPP_Lavoro_virtuale_mondo_reale_dati_indagine_inapp_plus_lavoratori_piattaforme_Italia_PB_25_2022.pdf?sequence=1&isAllowed=y
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