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Guido Tallone

L'Editoriale della domenica. La morte dimenticata dietro le sbarre

di Guido Tallone


I dati sul carcere non mancano. Si parla di circa 60 mila detenuti; 61.480 per l'esattezza dicono gli addetti ai lavori, contro una capienza di 51.234. Numeri che spiegano perché la parola carcere sia sempre associata anche a quella del sovraffollamento (che ci viene dato nella dimensione media del 130 per cento e che, dunque, significa che in alcune strutture si arriva anche al 200 per cento).

Si parla di 58 suicidi dall’inizio dell’anno (69 nel 2023 e 85 nel 2022) e per capire che cosa possa significare basta provare ad immaginare un distretto socio-sanitario delle nostre ASL di circa 60.000 abitanti che nei primi sette mesi di questo anno abbia registrato 58 suicidi. Realtà inimmaginabile. Assurda. Inaccettabile. Anche perché bastano tre suicidi in un anno perché quartieri, paesi, città, amministratori e istituzioni varie si interroghino, con seria preoccupazione e con determinate volontà risolutive, per fronteggiare una simile emergenza. Per chi è in carcere tutto questo non avviene.


Suicidi: 12 ogni 10mila detenuti

Ma restiamo ancora qualche riga sul tema suicidio in carcere. La statistica ci parla di circa 0,8 casi di suicidio ogni 10mila abitanti, nella società fuori dal carcere. Dentro il sistema penale, però, i casi passano a 12 ogni 10 mila detenuti. Numeri impressionanti che si commentano da soli. Per scoprire poi, dal Rapporto di Antigone sui suicidi in carcere nel 2024 che “emerge come molte siano le persone toltesi la vita in carcere ancora in attesa di giudizio. Tra queste, sono almeno 28 le storie di suicidi avvenuti dopo brevi, se non brevissimi periodi di detenzione. Alcune persone si trovavano in carcere da qualche mese, altre da qualche settimana. Almeno 9 erano entrate solo da una manciata di giorni. Oltre a chi era da poco in carcere, diversi sono stati i suicidi di persone che si trovavano invece in procinto di lasciarlo. Se ne contano almeno 14 con una pena residua breve o prossime a richiedere una misura alternativa. Ad alcune di loro mancavano solo pochi mesi per rientrare in società”.

La detenzione continua a restare un qualcosa che è “oltre il muro”. Dall’altra parte. Oltre la sensibilità media del nostro Paese. Oltre gli interessi e persino oltre quel senso di giustizia e di rieducazione di cui il mondo carcerario dovrebbe farsi carico, per essere fedele al suo mandato costituzionale.

Il perché tutto questo accada è difficile da capire. I dati, ripeto, non mancano. La fotografia scattata da Antigone sugli istituti penitenziari è lucida e, allo stesso tempo, spietata. Strutture vecchie, scarsissima qualità edilizia, celle bollenti d’estate che negano a molti detenuti i 3 metri quadri (!) di spazio necessario al minimo vitale, mancanza di acqua calda e di condizioni igieniche in grado di difendere non dico il pudore, ma la dignità del detenuto - A 50 gradi senza condizionatore e dal bidet escono i topi, titolano i giornali - cure sanitarie insufficienti o assenti. E il triste elenco potrebbe continuare all’infinito. Condizioni di vita pessime. Degradanti e certamente non rieducative. Oltre qualsiasi decenza. Tutto vero. Tutto documentato. Tutto descritto con cura nei minimi particolari. Al punto che qualsiasi lettore che si imbatte in storie di detenzione maschili e femminili scritte nel 2024 prova imbarazzo e vergogna nel constatare come ai nostri tempi esistano ancora contesti detentivi di questo tipo (che ricordano quelli dell'Ottocento, senza distinzione alcune tra carceri borboniche e sabaude...) e che saldano la detenzione alla tortura.


Il carcere non è luogo di vendetta

Ancora alcune cifre: 3.827 detenuti sono tra i 18 e i 24 anni. Diecimila in attesa di giudizio (!) e seimila i condannati di primo grado. E più del 50 per cento dei detenuti è alle prese con una condanna definitiva con meno di 3 anni da scontare (il che significa che potrebbero avere accesso alle misure alternative alla detenzione previste dalla legge) e sono circa ottomila con meno di un anno di pena da scontare.

Resta inevasa la domanda: perché questa realtà – per quanto vera, dura, inaccettabile, “oltre” la soglia dei diritti essenziali di ogni essere umano e tragicamente nota e conosciuta – si colloca “oltre” il nostro spazio di interesse? Perché il carcere continua a suscitare distanza e – allo stesso tempo – quasi convince che chi di fatto è dentro è perché “se lo è andato a cercare” e dunque “un po’ se lo merita”? Per aggiungere poi, magari sottovoce, che “è (quasi) giusto che non vengano trattati bene” (e che “se vengono trattati male, magari ci pensano per la prossima volta”).

Si tratta di ragionamenti molto diffusi, spesso presenti nei commenti sui giornali alle notizie sulla realtà del carcere. Una realtà su cui sembra che si voglia gettare un po’ di luce, soltanto per non volerla davvero guardare e conoscere. Un paradosso. Forse perché il cuore umano è quasi sempre buono con sé stesso, ma decisamente più severo nei confronti dell’altro e spietato, punitivo e persino vendicativo con l’errore e la colpa dell’altro. La civiltà ci dice, però, che errore e colpa sono elementi costitutivi dell’essere umano e che punire eccessivamente chi sbaglia, alimenta il circolo vizioso del male e questo dilata logiche vendicative che impongono la violenza come codice comunicativo prioritario.

Ripensare il nostro sistema detentivo (perché non resti schiacciato sulla logica punitiva e vendicativa) diventa, di conseguenza, servizio di giustizia rivolto non solo ai nostri detenuti e a chi lavora con loro (nel 2024 sono diverse le guardie carcerarie che si sono suicidate), ma anche per il nostro sistema sociale, per la nostra democrazia e per la civiltà in cui viviamo. Se accettiamo che la colpa possa “annichilire” chiunque abbia commesso degli errori fino a fargli desiderare la morte, prima o poi da questo macigno che spegne la voglia di vivere resteremo tutti schiacciati.


Il contesto della punizione parla di colpa da espiare.

Il tema della rieducazione usa il linguaggio della responsabilità da assumere e della corresponsabilità da condividere per aiutare chi ha sbagliato a ri-alzarsi e a ritrovare la strada della legalità.

Per chi pensa al carcere come punizione da espiare fino alla fine, prima o poi strutture prigioni fatiscenti devono essere “ristrutturate”, sempre però “senza esagerare, se ci sono i fondi e certamente dopo altre priorità sociali più urgenti”. Lo stesso dicasi per la costruzione di nuove strutture carcerarie: da fare, ma sempre “se ci sono i soldi” “dopo altre priorità” e “senza farli diventare alberghi a quattro stelle!”.

Per chi crede nel valore della rieducazione, il problema non è affidare a Enti privati nuove strutture detentive per chi, ad esempio, è tossicodipendente (c’è qualcuno, tra i nostri politici, che pensa di costruire piccole carceri private?), ma creare le condizioni legislative e sociali perché diminuiscano gli ingressi in carcere (la detenzione è sempre la spia sociale di un disagio ben più diffuso) e attuare di più e meglio quelle misure alternative alla detenzione che sono previste dalla legge.

Chi è soddisfatto della detenzione come punizione è convinto che per “controllare” i detenuti bastino le guardie carcerarie (e pazienza se sono poche, insufficienti o sotto organico). Chi ha messo a fuoco che la pena detentiva deve essere rieducativa, sa che senza maestri, biblioteche, palestre, cinema, teatro e attività culturali, formative e lavorative, il carcere non serve a nulla e diventa dannoso.

Sono tutti ragionamenti, schemi, proposte e progetti conosciuti dagli addetti ai lavori. Sono però percorsi poco praticabili fino a quando non riusciamo ad abbattere quel “muro” che dentro di noi (e ben radicato nel nostro infantile buon senso) lavora per separarci dalla colpa altrui, affinché nessuno di noi veda le sue fragilità, le sue debolezze e le sue colpe.

Fino a quando quel “muro” sarà dentro la nostra testa e all’interno del nostro cuore – inutile negarlo – carceri e strutture detentive resteranno, per ciascuno di noi, un “oltre” che non interessa e non appassiona. Se dovesse però accadere – Dio non voglia – che il mondo della detenzione si avvicina alla nostra vita personale o dei nostri cari, allora si grida allo scandalo, all’ingiustizia delle prigioni, all’inciviltà delle nostre patrie galere e… via di seguito.

Indignarmi prima che il problema mi tocchi e impegnarmi non per me, ma per un altro che non conosco, è il senso della giustizia che “libera” mente e cuore dalle prigioni che sono dentro di noi e da quelle che spesso e volentieri ci fanno vergognare di essere come siamo.

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