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L'Autonomia differenziata alla prova della Salute/1

di Emanuele Davide Ruffino e Roberto Carignano


L'unica sostanziale novità dell'Autonomia differenziata in Sanità è nell'acronimo... infatti, si chiameranno LEP (Livelli Essenziali Prestazioni) e non più LEA (Livelli Essenziali di Assistenza) le priorità indicate dal legislatore. Ma oltre a ciò, è difficile intravvedere grandi sconvolgimenti nella sanità. Concettualmente aveva più significato il cambio da Livas (livelli uniformi di assistenza, dove si enunciava il tentativo di rendere le prestazioni sanitarie uguali su tutto il territorio nazionale) a LEA dove lo Stato si impegnava a garantire i livelli essenziali, lasciando alle Regioni le altre prestazioni, addossandosi però i costi conseguenti, cioè l'aumento della spesa. Il nuovo impianto subordina la determinazione dei relativi “livelli essenziali delle prestazioni, da determinarsi con decreti del Presidente del Consiglio dei ministri, con concernenti i diritti civili e sociali alla garanzia che vengano attuati su tutto il territorio nazionale.


La centralità sanitaria

Il legislatore si è posto l’ambizioso obiettivo di ottimizzare la facilità di accesso degli utenti in un’ottica di efficientamento delle risorse disponibili, così come anticipato nei programmi elettorali. La sanità, per le interrelazioni che intrattiene con la società, comporta un significativo impatto politico dovendo sintetizzare il volere e le necessità presenti in una società con le disponibilità tecniche e materiali. Il processo di riforma avviato, tuttavia, non sarà così semplice, perché obbligherà l'approfondimento di alcuni aspetti fin ora trascurati come l’appropriatezza delle prestazioni e la funzionalità del sistema. L’autonomia differenziata pone l’accento sul “dove” si deve posizionare il livello di governo, ridefinendo il mix pubblico privato, per rispondere al criterio che nessun sistema può fare a meno di uno di due capisaldi, che devono operare in sincronia, e le politiche di educazione sanitaria, che dovrebbero indurre comportamenti individuali e sociali idonei per raggiungere migliori condizioni di salute, attraverso un corretto uso delle strutture.

Gli argomenti per affrontare un dibattito dialettico tra le diverse posizioni sono molteplici, se non si riduce il tutto ad una mera rivendicazione dogmatica delle posizioni partitiche, come sta sistematicamente accadendo, senza giungere ad una soluzione. La pandemia e i problemi di produttività cronicamente presenti nel nostro sistema sanitario obbligano ad una decisa azione manageriale e non incentrarsi su polemiche che generano sfiducia nel sistema, dimenticandosi che nei processi di cura, la fiducia (a partire dal singolo professionista a tutto il sistema) è una componente essenziale.


Ridefiniamo i paradigmi del servizio sanitario

Se si scorressero i giornali dei decenni trascorsi, si rileva come lo spazio e le attenzioni verso il settore sono cresciute esponenzialmente. È sufficiente ricordare come il Ministro della Salute è sorto solo nel 1958 durante la III legislatura con il II governo Fanfani (prima le competenze rientravano nel Ministero del Lavoro) e per anni non fu considerato un ministero chiave. Solo con la riforma della 833/78 e l’istituzione del Servizio Sanitario Nazionale (SSN), la sanità ha ricevuto un imprinting socio-economico di rilievo nel Paese, come avveniva già in altri nazioni occidentali. Ma, sebbene il SSN si avvii ai suoi primi 45 anni di vita, le differenze tra regione e regione continuano ad essere marcate: nel corso del periodi si sono succeduti governi di varia impostazione, ma nessuno fin ora ha risolto il problema (in compenso non è mai mancato un reciproco scambio di accuse).

Il dibattito in questa fase pre-elettorale di alcune Regioni (Lombardia e Lazio in particolare) sembra più concentrato su parametri dogmatici, che non tecnocratici. L’occasione però non può sfuggire per tentare di ridefinire alcuni concetti essenziali per ridefinire i paradigmi del servizio sanitario.

La logica vorrebbe che, per le patologie rare e/o non frequenti, si concentrasse l’attenzione, le professionalità e le risorse in pochi centri superspecializzati, non tanto per aspetti economici, ma perché la concentrazione di esperienze e conoscenze permette di migliorare sensibilmente la qualità dei servizi offerti, con notevole impatto sui risultati raggiungibili in termini di miglioramento dello stato di salute.

Il portare a livello periferico alcune competenze può agevolare la predisposizione di sistemi maggiormente consoni alla realtà del luogo, ognuna con le sue peculiarità e bisognosa di disporre dei servizi essenziali. Tuttavia, l'esigenza di quadrare il cerchio tra esigenze di economia di scala e rispondenza alle peculiarità del territorio è un problema complesso che richiederebbe molti studi e dovrebbe essere scevro da posizioni preconcette, se ci si pone come unico obiettivo la funzionalità del sistema. La classe politica, nel lungo periodo, non sarà infatti valutata sulla capacità di adottare un modello anziché un altro, ma nel rendere sostenibile ed efficace il sistema.


(segue)


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