La morte di Nino Benvenuti: addio all'ultimo grande della boxe italiana degli anni d'oro
- Michele Ruggiero
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Aggiornamento: 3 ore fa
di Michele Ruggiero

Scompare con Nino Benvenuti l'ultimo grande dell'età dell'oro della boxe italiana, un passaggio che fa baricentro sulle Olimpiadi di Roma del 1960 e sugli anni Sessanta, raccogliendo la semina della seconda metà del decennio precedente e che darà ancora frutti negli anni Settanta e in avanti ancora qualche gemmazione. E con lui, se ne va anche l'ultimo protagonista dei "re" dei pesi medi a cavallo tra gli anni Sessanta e Settanta, che passa dalle sfide con Carlos Monzon e Emile Griffith, che lo hanno preceduto nell'Ade.
Ne deriva che ricordare Nino Benvenuti, classe 1938, non sia assolutamente un'impresa, perché le imprese le ha incise lui in maniera indelebile nel nostro immaginario collettivo, cosicché l'unica vera impresa è quella di mettere ordine nella sua storia, di scegliere i pezzi da assembleare, decidere da dove cominciare, per non perdersi nel labirinto della memoria con i suoi sterminati aneddoti e ricordi personali o se andare a ruota libera. In ultimo, se partire dalla sua inarrestabile cavalcata tra i dilettanti, da quel filotto di 119 vittorie consecutive con l'unico interrogativo del centoventesimo incontro, scomparso negli annali o, forse, semplicemente cancellato per non sporcare un curriculum immacolato, o ritrovarsi a raccontare a ritroso, dal fondo, che più fondo non si può per colpa di quel bruciante abbandono alla terza ripresa nella rivincita a Montecarlo contro l'indio Carlos Monzon, l'8 maggio del 1971.
Nel mezzo, le sue immagini si associano al costume dell'Italia dell'epoca, intraprendente quanto bacchettona e severa, alle foto che lo condannano a disconoscere una figlia nata fuori dal matrimonio, alle levatacce nel cuore della notte per ascoltare la radiocronaca di Paolo Valenti da New York, dal vecchio Madison Squadre Garden, sul cui quadrato diciassette anni dopo un altro italiano incrociava i guantoni per lo scettro mondiale dei pesi medi. Lui contro Emile Griffith, un autentico numero uno del ring, il pugile che cinque anni prima non aveva perdonato al cubano Benny Paret allusioni e frasi omofobe, colpendolo con una serie impressionante e continuativa di colpi che ne aveva determinato il coma e dieci giorni dopo la morte.

Il 17 aprile del 1967, Nino Benvenuti superò Griffith al termine di 15 durissime riprese. E fu un'emozione sentirlo la domenica successiva alla Domenica sportiva dedicare la vittoria al suo concittadino, al triestino Tiberio Mitri, un altro bello e impossibile, che nel 1950 aveva attraversato l'oceano per sfidare il Toro del Bronx, il campione Jake La Motta, (nella foto) l'italoamericano dai lineamenti rudi e indisciplinati che contrastavano con il fascino apollineo del suo avversario, che aveva impalmato una donna da sogno e da copertina, Fulvia Franco, miss Italia 1948.
Benvenuti saliva così sul "tetto del mondo" della categoria più prestigiosa dopo quella dei massimi a sette anni dall'oro di Roma, le Olimpiadi più affascinanti dell'era moderna, quelle che avevano espresso un nome, Cassius Clay, destinato a riassumere lo stato di grazia di un'intera generazione di quei formidabili anni Sessanta. In quei Giochi, il pugilato azzurro raggiunse l'apoteosi, con sette medaglie al collo, primato eguagliato dalla Polonia, ma che ne portava soltanto una a casa del metallo più pregiato. L'Italia ne colse tre d'oro, con Francesco Musso nei pesi piuma, Franco De Piccoli nei massimi e appunto Nino Benvenuti nei welter; tre erano d'argento, Primo Zamparini nei gallo, Sandro Lopopolo nei leggeri e Carmelo Bossi nei superwelter e una di bronzo con Giulio Saraudi nei medio massimi. Di quei medagliati, anche Lopopolo e Bossi sarebbero diventati campioni del mondo, il primo nei superleggeri, l'altro nei superwelter. Ma prima di loro, lo era diventato un guerriero del ring, quel Sandro Mazzinghi da Pontedera indirettamente stoppato nella selezione preolimpica dal comissario tecnico azzurro Natalino Rea, lo stratega che con i suoi spostamenti dei pugili da una categoria all'altra aveva costruito la più formidabile macchina italiana da guerra pugilistica di tutti i tempi.
Nel settembre del 1963 al Vigorelli di Milano, Mazzinghi abbatte lo statunitense Ralph Dupas alla nona ripresa e si cinge della cintura mondiale dei medi junior. Mesi dopo, pilotato da uno dei più brillanti e sagaci procuratori del tempo, Adriano Sconcerti, torna sul ring a Sidney, in Australia, e risolve la rivincita con l'americano al tredicesimo round. Un titolo, due campioni. L'antagonista di Mazzinghi non può che essere il predestinato Nino Benvenuti. Che dalla sua ha anche ciò che non si pensa possa avere tutto insieme un pugile: intelligenza, cultura, bellezza e fascino. E poi, l'Italia ha nel suo Dna la divisione, sportiva e non. Mazzinghi e Benvenuti l'interpretano perfettamente, anche sul piano politico: il primo toscanaccio di sinistra, l'altro esule istriano, nazionalista e rasente ai neofascisti di Almirante; l'uno d'estrazione proletaria, il secondo di famiglia benestante.
Perfetto, ciack si gira. A giugno del 1965, allo stadio San Siro di Milano i due si affrontano trascinandosi dietro una marea di polemiche tra i clan contrapposti. Mazzinghi, che l'anno prima ha perduto la moglie in un incidente stradale, soffre Benvenuti, ne patisce la popolarità e non lo nasconde. Non c'è astio tra i due, ma c'è più di una semplice rivalità sportiva. Sul ring, la tensione si risolve in un colpo magistrale di Benvenuti che chiude il match alla sesta ripresa. Sei mesi dopo la rivincita. Il verdetto è ai punti per il campione, ma tifosi e la scuderia di Mazzinghi contestano gli arbitri. Con quell'incontro, si esaurisce la competizione sul quadrato, ma non nella vita, soprattutto da parte di Mazzinghi, che si riprende nel 1968 il titolo dal coreano Ki-Soo Kim che l'aveva strappato dalle mani di Benvenuti nel 1966, in un controverso incontro a Seoul, in cui accade l'impossibile, tra sospensioni per improvvise rotture di corde del ring e un arbitraggio casalingo. Ma, c'è anche un non detto, che ritornerà come un mormorio altre volte sulla preparazione di Benvenuti: l'avversario è stato sottovalutato.

Non è cosi nel novembre del 1970 con Carlos Monzon (nella foto). La fama del picchiatore argentino, che fa anticamera da un paio di anni, è nota e non suggerisce distrazioni. Semmai, ritardi, posticipi. Amaduzzi, il manager di Benvenuti, preferirebbe una difesa volontaria del titolo contro un avversario più morbido. Lo ha pilotato al titolo mondiale dei medi, era al suo angolo nelle tre sfide con Griffith, è sempre stato prudente nella scelta degli avversari, ma ora conosce bene i limiti del suo pugile, prossimo alla soglia dei 33 anni, logorato da una novantina di combattimenti tra i professionisti. Monzon se lo conosci lo eviti, pensa Amaduzzi. Benvenuti è di parere opposto. Un campione del mondo non si sottrae alla sfida. Che gli sarà fatale. Eppure, i giornalisti italiani che osservano Monzon in allenamento sono scettici sul suo reale valore. Qualcuno azzarda che non ha granché movimento con le gambe e anche quello del tronco lascia a desiderare. Ma a Roma, all'indio di Santa Fe è sufficiente il solo movimento delle braccia, dei suoi colpi doppiati e taglienti per spegnere la luce al dodicesimo round al campione del mondo.
Dal ritiro agonistico, dopo la rivincita perduta a Montecarlo con Monzon, la vita di Nino Benvenuti si è strappata, addirittura lacerata con la perdita di un figlio, e ricucita più volte, anche sul piano degli affetti famigliari, fino a ritrovare la donna che aveva amato, ma non accettata per perbenismo e la figlia nata dal loro amore. Quella stessa vita non è mai uscita dal cuore di chi ha amato il pugilato, quello della tv in bianco e nero e delle telecronache di Paolo Rosi, delle classifiche mondiali di pugilato dell'associazioni pugilistiche Wbc e Wba che la rosea, la Gazzetta dello Sport, pubblicava mensilmente, in cui c'era un solo campione per dieci categorie di peso e la certezza di un solo numero uno, pronto a sfidarlo. Altri tempi.
Nella memoria mi rimane un aneddoto personale di Nino Benvenuti. Non è un granché, ma lo conservo con grande affetto, così come conservavo i ritagli dei giornali dei suoi incontri e di quelli dei grandi pugili italiani in cima al mondo o sulla vetta d'Europa in quegli anni, dai già citati Mazzinghi, Bossi, Lopopolo, ad Arcari, Atzori, Burruni, Del Papa, Duran e tanti altri ancora.
Nel 1992 Nino Benvenuti mi aveva invitato, per un'intervista, nella sua casa, in una via centralissima di Roma, mi pare via dei Condotti, che all'epoca divideva con una signora argentina, una diplomatica, un'unione che si esaurì abbastanza rapidamente. All'ingresso, aveva collocato sul muro una sua foto a grandezza naturale, di grande effetto. Un adone con la cintura di campione del mondo. Nel salotto, la signora argentina aveva piazzato di fronte al divanetto una bellissima poltrona in pelle made in Argentina (lo seppi dopo) su cui non mi feci pregare ad accomodarmi non appena Benvenuti fece il classico gesto di cortesia. Ma avevo equivocato.
La poltrona non era destinata a me. Infatti, non mi ci volle molto a comprendere che il padrone di casa era a disagio. Lo guardai negli occhi e gli chiesi se c'era qualcosa che non andasse. Mi rispose mostrando un misto di imbarazzo e di gentilezza che la poltrona su cui ero (comodamente) seduto era quella che riservava a sé il padrone dell'estancia, la fattoria della Pampa argentina. Non ho difficoltà ad ammettere che gli proposi "spontaneamente" di cambiare posto. Ne seguì un sorriso.
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