Incombe una crisi politica sulla transizione verde europea
- Vito Rosiello
- 4 giorni fa
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di Vito Rosiello

L’accordo raggiunto dai Ministri dell’Ambiente dell’Unione Europea sugli obiettivi climatici per il 2040 rappresenta uno spartiacque politico. Dopo settimane di tensioni e un vertice durato oltre diciotto ore, gli Stati membri hanno approvato un testo che, pur mantenendo formalmente intatti i numeri della strategia climatica, ne svuota la sostanza. È l’ennesima manifestazione di una crisi più profonda: quella della volontà politica europea di guidare la transizione ecologica in modo coerente, ambizioso e solidale.
Il compromesso della debolezza
L’intesa, giunta a poche ore dall’apertura della COP30, avvenuta a Belem ieri, 10 novembre [1], è stata presentata come un successo diplomatico necessario per evitare un vuoto di credibilità internazionale. In realtà, più che un successo, il risultato segna un arretramento strategico. L’Europa si presenta al vertice mondiale con un compromesso che risponde alle pressioni interne più che a una visione comune sul futuro climatico del continente.
Il ministro spagnolo Sara Aagesen ha dichiarato che «è in gioco la leadership internazionale dell’Europa». La formula è corretta, ma suona amara: la leadership europea, costruita negli anni su obiettivi climatici coraggiosi e su un modello di governance multilaterale, rischia ora di dissolversi proprio nel momento in cui il mondo avrebbe bisogno di un’Europa guida, coerente e determinata.
Il ministro italiano Gilberto Pichetto Fratin ha parlato di “un buon compromesso”, affermando che la Commissione ha “riconosciuto le istanze nazionali”. Ma è proprio questo il nodo politico: le istanze nazionali, moltiplicate per ventisette, stanno progressivamente disarticolando la capacità dell’Unione di agire come soggetto politico unitario in materia climatica.
Dalla leadership al calcolo interno
La proposta originaria della Commissione prevedeva una riduzione del 90% delle emissioni entro il 2040 rispetto ai livelli del 1990, con solo il 3% compensabile attraverso crediti di carbonio esteri. L’accordo finale mantiene la cifra simbolica del 90%, ma abbassa l’impegno interno effettivo all’85%, con la possibilità di scendere all’80% tramite compensazioni esterne.
Si tratta di una revisione che non è soltanto tecnica: è politica. Esternalizzare fino a un quinto della riduzione delle emissioni significa trasferire la responsabilità climatica europea su altri Paesi, pagando affinché altri facciano ciò che l’Europa non riesce o non vuole più fare. È la trasformazione della politica climatica in politica contabile, dove l’urgenza della transizione si misura non in scelte strutturali, ma in margini di flessibilità.
La vicepresidente della Commissione Teresa Ribera ha avvertito che “abbassare le ambizioni significa sprecare denaro e perdere opportunità”. Il messaggio è chiaro: non è solo una questione di ambiente, ma di modello di sviluppo. La rinuncia europea a un approccio coerente alla decarbonizzazione rischia di indebolire anche la competitività economica, l’innovazione tecnologica e la coesione sociale.
Il nodo italiano e la questione dei biocarburanti
Il rinvio dell’ETS2, il nuovo sistema di tariffazione delle emissioni per trasporti e riscaldamento, dal 2027 al 2028, è un ulteriore segnale di prudenza che nasconde la paura del conflitto sociale. La decisione, sollecitata da Paesi come la Polonia, indica come la transizione ecologica resti ostaggio delle tensioni tra centro e periferia dell’Unione, tra chi può permettersi la trasformazione e chi teme di pagarne il prezzo politico.
Allo stesso tempo, la proroga dei permessi gratuiti per l’industria pesante conferma la difficoltà di coniugare l’agenda climatica con la difesa del sistema produttivo tradizionale. L’Europa, che aveva promesso una “transizione giusta”, sembra scegliere la via della transizione dilazionata: meno giusta, ma più gestibile.
L’Italia è riuscita a ottenere il riconoscimento dei biocarburanti e dei carburanti a basse emissioni come parte integrante della strategia di decarbonizzazione. Questo inserimento, apparentemente tecnico, ha una valenza politica profonda: riapre la discussione sul divieto di vendita dei motori a combustione interna dal 2035, e segna una vittoria per le lobby industriali e nazionali contrarie a un’elettrificazione rapida del trasporto.
Il risultato è una strategia europea sempre più frammentata, in cui ogni Paese difende il proprio modello energetico e produttivo. Così, mentre l’Europa parla di neutralità climatica, la sua architettura politica continua a oscillare tra ambizione e rinuncia, tra visione comune e sovranità nazionalista.
Un orizzonte che si restringe
La mancata definizione chiara degli obiettivi climatici al 2035, fissati in un generico intervallo tra il 66,25% e il 72,5%, mostra l’incapacità di tradurre gli impegni internazionali in una pianificazione concreta. Non è un problema di calcolo, ma di volontà politica. L’Europa sembra aver scelto di “gestire” la transizione invece di guidarla, cedendo alla logica del consenso immediato e rinviando le scelte più difficili.
L’accordo sul 2040 non è solo un compromesso tecnico: è il sintomo di una crisi di senso. Il progetto europeo di transizione verde, un tempo concepito come pilastro di una nuova identità politica dell’Unione, appare oggi come un mosaico di interessi divergenti. Il Green Deal, nato come manifesto di un’Europa capace di coniugare sostenibilità e giustizia sociale, si sta trasformando in un campo di negoziazione permanente tra Stati, industrie e lobby. In questo quadro, la politica climatica europea smette di essere un orizzonte condiviso e torna a essere terreno di conflitto. L’Europa, che voleva essere laboratorio di un nuovo paradigma globale, rischia di ridursi a mediatore delle proprie contraddizioni.
L’accordo del 5 novembre 2025 non è una vittoria, né una sconfitta: è una resa parziale. Una resa alla logica del compromesso continuo, che preferisce la gestione del rischio politico alla costruzione del futuro.
La transizione ecologica europea, nata come progetto politico di emancipazione e di visione, si trova oggi risucchiata nella retorica della gradualità. In un’epoca in cui il tempo è la risorsa più scarsa, l’Europa sembra aver scelto di rallentare proprio dove avrebbe dovuto accelerare.
Note













































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