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Il volto feroce della “Grande Turchia”

Aggiornamento: 4 gen 2023

di Germana Tappero Merlo *

Perché meravigliarsi, noi occidentali, delle azioni militari del turco Erdogan nel nord della Siria? Indignarsi, certamente, perché l’obiettivo dell’offensiva ad oltranza sono i curdi, i protagonisti della scacciata lunga e sofferta dell’Isis anche in nome di una controversa ed inefficace guerra al terrorismo il cui avvio, già nel lontano 2003, l’Occidente dovrebbe sentirsi responsabile. Ma questa indignazione, oltre che ipocrita, è decisamente molto tardiva e lo stupore rivela l’ignoranza dei meccanismi interni propri del Vicino Oriente e di un contesto mondiale che non ha ancora trovato un suo ordine a trent’anni dalla fine della guerra fredda. È urgente, quindi, agire ma consapevolmente. Un compito complesso, data anche la crisi di organismi collegiali, consultivi e difensivi, come il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite e la Nato, vittime entrambi di erosione di legittimazione da parte dell’imperante unilateralismo nell’agire, specifico di questo nuovo millennio, a cui fa da sponda il ritiro degli Stati Uniti dal ruolo di “poliziotti del mondo”. Organismi, quindi, vetusti che necessitano di riforme radicali per imporre soluzioni adeguate ai tempi. Per comprendere ora la violenta invasione turca dei territori curdi siriani basta prendere coscienza che Erdogan sta solo completando ciò che aveva iniziato nel 2015. Erdogan si inserì nel caos della guerra civile siriana fin dalle prime battute, rivolgendo in seguito la sua attenzione militare non più soltanto verso il regime di Bashar Assad ma anche verso quell’etnia di un Kurdistan, che si estende fra il territorio turco, siriano, iracheno e iraniano e che vorrebbe solo l’autonomia amministrativa, al solo scopo di mettere mano definitivamente alla sua ricchezza (petrolio e acque). Tutto ciò in nome di un sogno di egemonia personale, quello del ritorno alla “Grande Turchia”, che il rais turco insegue da sempre non disdegnando, all’occorrenza, di porsi come strenuo difensore di un Islam fondamentalista, se non addirittura radicale, per ottenere il supporto di partner locali. Queste sue ambizioni sono ora estremamente destabilizzanti, costose ma alla fine, per lui, anche redditizie. Se il Kurdistan esistesse come entità autonoma potrebbe avere, infatti, tutti i requisiti di potenza economica e giocare un ruolo strategico nei delicati equilibri regionali così come quelli globali. Ne sono coscienti i 50 milioni di curdi che abitano nel vicino Oriente, Erdogan e gli altri protagonisti mediorientali, tranne l’Occidente. E gli slogan ripetuti all’infinito circa una “Turchia fuori dalla Nato”, o la minaccia di sanzioni o di blocco di vendita di armi, ne sono la tardiva dimostrazione. Com’è stato possibile che la Turchia il Paese Nato più strategico come posizione geografica (la base aerea di Incirlik è determinante l’attività militare dell’Alleanza nella regione e in Centro Asia) e più armato (fra i tanti armamenti, anche 50 testate nucleari statunitensi) abbia acquistato da Putin, già nel 2017, sistemi anti-missile S-400 (arma, tra l’altro, più efficace contro gli F-35 Nato), a cui è seguito a luglio di quest’anno l’addestramento al loro uso di soldati di Ankara direttamente in territorio russo? Ciò sarebbe bastato a sollevare prese di posizione e un intervento più deciso da parte della Nato. Eppure non è avvenuto nulla, a dimostrazione, ad essere benevoli e non pensare al peggio, della confusione dell’Alleanza circa il suo ruolo in quel contesto da sempre così strategico. Come giudicare, inoltre, l’approccio di totale chiusura di Bruxelles all’entrata della Turchia nell’Unione Europea esigendo il sacrosanto rispetto dei diritti umani, ma nel contempo facendo, ciascuno dei suoi membri, lucrosi affari anche di armi con Ankara e barattando la libertà di migliaia di profughi siriani rinchiusi nei campi turchi in cambio di denaro e la tranquillità delle nostre vite?


Le risposte agli interrogativi circa il comportamento di Erdogan stanno tutte nell’ipocrisia e nell’ignoranza dell’Occidente di quanto avviene nel vicino Oriente. Paradossalmente, può passare il tradimento di Trump: coerentemente con il suo America first, continua solo il lavoro già iniziato da Obama, di ritiro degli Usa da scenari di guerra troppo distanti e costosi, anche in vista delle prossime presidenziali, sebbene il prezzo, in termini politici, è da tempo la perdita di fiducia degli alleati locali. E l’Europa? Purtroppo, con i suoi ritardi decisionali, dimostra la sua debolezza, la sua confusione interna, la mancanza di una politica internazionale condivisa e coerente perché ha una sua visione esclusivamente economicista ed illusoriamente eurocentrica di relazioni con il vicino Oriente, là dove quei soggetti hanno ora alternative, come la Russia, l’Iran e, a loro volta, che ci piaccia o no, la Cina. Anche nella vendita di armi, perché per la natura delle nuove guerre, lunghe, di guerriglia, di assedio e di terrorismo, i poco o nulla sofisticati sistemi d’arma cinesi sono più che sufficienti. E di questo fatto, tutti in quella regione, nessuno escluso, sono più che consapevoli. E le minacce tardive di blocco della vendita di armi sortiscono l’effetto di una goccia d’acqua gettata in un deserto di inattendibili intenzioni. * Dottore di ricerca in US Political and Military History – Storia delle Americhe (Università di Genova), è Senior Analyst di Politica internazionale e Sicurezza del Medio Oriente e Africa per enti governativi e società private. È Direttore del corso in Cyberwarfare e Cyber Security presso il Dipartimento di Scienze Informative e la Sicurezza dell’Istituto Unintess e docente di Radicalismo e terrorismo islamico presso lo stesso istituto. È membro del Direttivo della Società Italiana di Storia Militare e del Comitato Affari Internazionali dell’Italian Diplomatic Academy.


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